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Aggiornato Domenica 04-Mar-2012

 

«Pronto!»
«Luciano?»
«Che vuoi?»
«Ascolta, bisognerebbe che tu venissi via…»
«Non dire scemenze, sto lavorando…»
«Dammi retta… subito…»
Luciano impallidì: «Che è successo? Dove sei?»
«Sono all’ospedale…»
«Daniele?»
«No, Adele… Un incidente…»
«Arrivo…»
Sfrecciò accanto ad un collega e gli gridò che doveva correre all’ospedale, che avvertisse lui il caporeparto. Si mise il casco e quasi impennando sgommò via. Sorpassò, tagliò la strada, non rispettò gli stop, superò ogni giallo e rosso che incontrò senza mai decelerare – come fece ad arrivare a destinazione sano e salvo era un mistero. Entrò al Pronto Soccorso e dovette attendere il suo turno prima di poter chiedere: «Guardi, non so niente, solo che mia moglie mi ha telefonato dicendomi che hanno ricoverato mia sorella…»
«Quando?»
«Non ne ho idea…»
«Nome?»
«Luciano Rienzo.»
L’infermiera lo guardò come se fosse un deficiente: «Non il suo…»
«Mi scusi… Adele… Rienzo.»
«Ah, la paziente senza nome…»
«???»
«Terzo piano.»

Luciano raggiunse l’ascensore. Faceva fatica a mettere insieme un pensiero compiuto. “Senza nome” – perché? Entrò nel reparto e vide sua moglie appoggiata ad un muro, il viso sfigurato dalle lacrime, lo sguardo perso nel vuoto.
«Gina…»
«È in coma, Luciano…»
«Coma??? Ma cos’è successo?»
«Forse ha perso il controllo della macchina – è finita contro un albero…»
«Quando?»
«È successo ieri sera, verso le sette…»
«Dove?»
«Sulla provinciale…»
«Ma che ci faceva lì, a quell’ora?» - Gina cominciò a singhiozzare - «Hai parlato con qualcuno? Cosa ti hanno detto?»
«È grave…»
«Quanto?»
«Tanto…»
Luciano ebbe un mancamento. Gina riuscì a sorreggerlo e la caposala accorse per prestare soccorso. Quando si fu ripreso le chiese perché l’infermiera del Pronto Soccorso avesse definito sua sorella “senza nome”.
«Non aveva i documenti con sé e la macchina risulta ancora intestata al precedente proprietario che non era rintracciabile. L’ha riconosciuta oggi pomeriggio il primario del reparto, il Dottor Santini, pare che qualche anno fa la signora Adele abbia dato ripetizioni di matematica a suo figlio.»
«Ci sono speranze?»
«Mi spiace, ma è meglio che parliate con lui… Sta visitando. Appena si libera vi raggiunge. Coraggio, fatevi forza…»

Gina gli mise una mano sulla spalla – erano mesi che non lo toccava. Le lacrime le scendevano una dopo l’altra lungo il viso, come un fiume che a poco a poco rompe gli argini e finalmente dilaga. Anche Luciano piangeva, ma non riusciva a guardarla negli occhi. Improvvisamente si vergognava di se stesso, delle cose cattive che aveva pensato, detto, quelle che aveva o non aveva fatto. Gina le conosceva, tutte. Conosceva il suo egoismo, la sua indifferenza, il suo stupido perbenismo. Erano otto anni che se ne disinteressava completamente, salvo quando ne aveva bisogno, non poteva farne a meno. Era stato ingiusto, impietoso. L’aveva condannata, tagliata fuori dalla sua vita, senza dare spiegazioni – non occorrevano, sosteneva – e il resto dei parenti si era comportato allo stesso modo, se non peggio. Sembrava quasi che non aspettassero altro che un buon motivo per sbarazzarsene. D’altronde, non l’avevano mai accettata sino in fondo. In quanto adottata, per alcuni era innanzitutto un’estranea, per altri addirittura una minaccia, solo il padre aveva un’autentica predilezione per quella bambina introversa, riottosa, e finché fu in vita la protesse e favorì incondizionatamente. Questa fu una delle cause del risentimento sdegnato che ognuno maturò contro di lei e quando le sue vicende personali diedero scandalo, ne approfittarono.

Nel 1997, Adele stava per sposarsi. Era tutto pronto: gli inviti consegnati, gli abiti ultimati, il ristorante prenotato, le bomboniere già nelle ceste – ma lei non poteva essere contenta e più si avvicinava il giorno delle nozze, più aumentava l’insofferenza, l’inquietudine. Non era stata un’idea sua. Federico aveva insistito tanto e così a lungo da strapparle un sì piccolo-piccolo, striminzito – chiunque avrebbe avuto qualche perplessità, ma non lui. Federico voleva essere certo di averla, cercava una sicurezza che nessun contratto poteva garantirgli. Adele sapeva che stava commettendo uno sbaglio, che non aveva il diritto di concedergli la parte di sé più misera e infelice – e venne il giorno in cui dovette trovare le parole per dirlo, per confessarlo a lui e, soprattutto, a se stessa.

Da tutta una vita Adele teneva a bada la sua omosessualità, la reprimeva, la negava, fingeva di non vederla. Non aveva mai amato un uomo, avrebbe voluto ma non le era mai capitato. Voleva bene a Federico, come ad un fratello - e l’intimità, con lui, era un doveroso incesto privo di gioia, condivisione. Un sacrificio che si fa per non sentirsi soli, per non essere abbandonati, per non dover scontare la colpa d’essere sbagliati, per non pagare il prezzo della diversità, per non dover dare spiegazioni, per non fare i conti con se stessi, per non offendere, deludere l’altro, gli altri, per non subirne il disprezzo, la derisione, il giudizio.

Lui finse di cadere dalle nuvole e non ebbe per lei alcun rispetto, discrezione - amore. Si salvò la faccia svergognandola e Luciano si schierò tacitamente dalla sua parte, per quel che gli importava di chiunque non fosse la propria persona. Gina non se ne stupì - in cuor suo, chissà perché, aveva sempre saputo ognuna di queste e molte altre cose. L’umana comprensione che disinteressatamente nutriva per lei, non era una formalità, perciò non venne meno - ma tale fu la delusione, il dolore, che Adele cominciò a chiudersi in se stessa e non permise mai più a nessuno d’incontrarne l’anima, nemmeno a lei. Gina ne aveva sofferto, senza darlo a vedere. Si era chiesta spesso se si rendesse conto di quello che stava facendo – a vederla da fuori, in quei rari momenti durante i quali scambiavano due parole, le sembrava di no. Pensava che fosse una fortuna: se un giorno avesse aperto gli occhi, forse la luce l’avrebbe accecata, il freddo uccisa.

«È strano, sai?»
«Cosa?»
«Potrei giurare di averla vista, stamani, quando mi sono fermata al distributore per fare benzina…»
«Ti sei sbagliata, è ovvio.»

«Può darsi, Luciano, può darsi…».

 

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