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Aggiornato
Domenica 04-Mar-2012
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Letizia accostò, fortuna che non c’era traffico altrimenti, con quella sbandata, chissà cosa poteva accadere… Scese per capire cosa diavolo fosse successo. Mohammed aveva temuto che andasse a schiantarsi contro un platano. Anche lui si era preso un bello spavento. Si fermò sul ciglio della strada, scese dal motorino e corse a sincerarsi che fosse tutta intera. «Gesù, che paura…» - sussurrò Letizia dando un calcetto al pneumatico esploso. Attraversarono la strada ed entrarono in un bar che aveva aperto da poco, era ancora deserto. «Sediamoci…» - disse lei indicando un tavolo. Mohammed acconsentì - era in anticipo, poteva permettersi uno strappo alla regola. Per una di quelle strane alchimie che talvolta si creano tra perfetti estranei, Letizia e Mohammed si ritrovarono a parlare di un’infinità di cose, come due vecchi amici che avevano tanto da raccontarsi. Erano così presi dalla conversazione che non si resero minimamente conto delle differenze che avrebbero dovuto farli diffidare uno dell’altra: un uomo e una donna, una bianca e un nero, un’europea e un africano, una cattolica e un mussulmano – ce n’era da far drizzare i capelli in capo. Mohammed guardò l’ora e si accorse di essere in ritardo: «Accidenti, devo proprio andare… Senta, se passa dal distributore dove lavoro ci penso io al pneumatico…» Letizia aveva un appello quella mattina. Studiava scienze politiche ed era in pari con gli esami. Raggiunse l’università, tirò fuori i libri e fece un ripasso generale in attesa del suo turno. Era proprio una brava ragazza. Seria, educata, aperta, solare – difficile darsene una spiegazione. I suoi genitori erano tristi, cupi, pieni di cattivi pensieri, capaci di azioni anche peggiori, non andavano d’accordo praticamente con nessuno. Negli anni si erano inimicati prima tutto il parentato, poi tutto il vicinato. Quando incontravano le persone non salutavano, ringhiavano. Ovvio che ricevessero un eguale trattamento. Avevano avuto tre figli: Dino e Gianni, i maggiori, e Letizia, appunto, l’ultima arrivata a tempo pressoché scaduto. Maria aveva già quarantacinque anni quando rimase in cinta e Vincenzo dieci di più, per lei erano quasi dei nonni. Entrambi ex impiegati statali, di ottima famiglia, avevano perlomeno garantito ai figli una vita relativamente agiata ed una buona istruzione in ricche scuole private, cattoliche. Solidamente tradizionalisti e per niente disponibili ad accogliere i cambiamenti di una società che giudicavano corrotta e amorale, avevano cercato di reprimerli inculcandogli ogni sorta di timore, ma non avevano ottenuto i risultati sperati: Dino era diventato un giramondo che si guadagnava da vivere facendo l’artista di strada e Gianni era diventato un agente di borsa, probabilmente gay. A Letizia era andata un po’ meglio: con l’età avevano ceduto alla stanchezza, alla rassegnazione – e forse, aver tanto fallito, gli aveva insegnato che i figli sono persone, e le persone non sono fatte di argilla, contrariamente a quello che dice la bibbia. Trenta. Letizia non poteva che esserne soddisfatta. Erano già le due, doveva passare in segreteria per controllare i prossimi appelli, in biblioteca per restituire dei libri e prenderne altri, fare un salto in libreria. Insomma, doveva spicciarsi se voleva farsi sistemare l’auto da quell’uomo così gentile e interessante – che fortuna averlo incontrato. Alle diciotto e trenta si presentò al distributore. Entrambi furono felicissimi di rivedersi. Lui le sostituì il ruotino raccomandandosi che facesse controllare la convergenza appena possibile, lei pagò e senza preoccuparsi d’essere sconveniente, lo invitò, se non aveva altri impegni, a bere qualcosa in un bar carino non molto distante. A Mohammed, in tanti anni, non era mai capitata una cosa del genere. Accettò e decisero d’incontrarsi là. Scelsero un tavolo in un angolo poco rumoroso e ordinarono due aperitivi analcolici. Stavano parlando delle rispettive differenze culturali quando il telefonino di Letizia squillò. Ed Elisabetta riattaccò. |