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Aggiornato Mercoledì 29-Mar-2006

Cristina: «Morirò scapolo»

 

LA REGINA CRISTINA


Da “Greta Garbo” di Alexander Walker

 

“La Regina Cristina” (26 Dicembre 1933) è più una raccolta di mitologie sulla Garbo, che un capitolo di storia svedese. Gli stati psicologici della protagonista sono cosi evidentemente e spesso astutamente presi a prestito da quelli della diva per opera, fra altri, della sua intima amica e sceneggiatrice Salka Viertel, che vien fatto seriamente di chiedersi se non fu proprio il film a gettare il seme dell’abdicazione nei pensieri della Garbo. Nel film c’è una bizzarra coincidenza: il nome scelto dalla regina bisessuale come pseudonimo maschile, durante l’esilio a Roma, fu “Conte Dohna”, mentre il primo ruolo d’un certo rilievo interpretato dalla Garbo fu quello della Contessa Dohna, ne “La leggenda di Gosta Berling”.

“La Regina Cristina” fissò l’immagine pubblica della star, fino a quella discesa da montagna russa che doveva portarla alla commedia “Ninotchka”. È il tessuto mentale d’una donna che fornisce sostegno intellettuale ai fronzoli storici. In alcune scene la Garbo, allora appena ventottenne, sembra non solo più vecchia di anni, ma più saggia di secoli. Così, per esempio, quando Cristina riesce a sedare la folla, giunta quasi a metà della scalinata del palazzo, in tumulto perché lei ha un amante spagnolo, e poi quando istruisce i presenti sulle responsabilità della monarchia e di conseguenza la folla si disperde fra parole di sottomessa scusa. William Daniels, come al solito, lavora miracolosamente con le luci sul volto della Garbo, giungendo persino ad inventare uno speciale marchingegno di vetri smerigliati che serviva a smorzare gli effetti altrimenti troppo duri dell’obiettivo grandangolare, mentre questo si ferma sull’ultima famosa inquadratura della Garbo nel film: pallida, secondo le istruzioni di Mamoulian (“Pensa al nulla”), quando la nave della Regina lascia la Svezia per sempre. Ma il più grande elemento scenografico è la sequenza della camera da letto. Mamoulian, dotato d’un retroterra operistico e d’una conoscenza della coreografia, ordinò: “Fallo a tempo di musica”, introducendo un metronomo perché la Garbo tenesse il tempo mentre si muoveva per la stanza, e John Gilbert la scrutava con perplessità mezzo divertita. La Garbo usa le mani come un rabdomante la sua bacchetta per cercare la fonte dell’amore, sfiorando le pareti, facendo girare la ruota della filatrice (un arredo manifestamente bizzarro per una camera da letto) come la cieca Atropo, prendendo le cesoie per recidere il filo del fato, abbracciando il cono fastidiosamente fallico della lana non ancora filata, lasciandosi scivolare sul letto, strofinando il volto contro le lenzuola e le coperte come fossero il petto del suo amante, quindi facendosi strada attraverso l’immenso letto e poi addossandosi contro la colonnina del letto in un rapimento tanto vicino ad un orgasmo quanto Hollywood lo consentiva allora. A questo punto, come la musica s’interrompe, ella mormora: “Ho immaginato la felicità, una felicità che tu non puoi immaginare”. Ciò che rende la sua arte cosi mozzafiato è il modo in cui la Garbo rappresenta simultaneamente il dolore come pure la gioia. Le parole, quasi a difendere il suo rapimento (“In futuro, nella mia mente, vivrò assai a lungo in questo mondo”), rivelano un sotto fondo di triste meditazione come di chi, in uno stato di inesprimibile gioia, si prepari a una certa solitudine, ad una certa perdita.

La suddetta sequenza è tanto più meravigliosa se la si contrappone al tono della relazione dell’esperto di storia svedese, un certo colonnello Einhornung, che la MGM, preoccupata dalle possibili offese che la famiglia regnante poteva ricevere dalla descrizione dei propri antenati, aveva assunto per rivedere ogni particolare della sceneggiatura e della produzione. Il colonnello esaminò tutto, ma i suoi suggerimenti furono allegramente ignorati da Mamoulian e dalla troupe. Un’irritazione quasi comica emerge in ogni frase della verbosa relazione di Einhornung, un documento che testimonia istruttivamente come una realtà prosaica fosse stata trasformata in mito cinematografico. “Persino Miss Garbo”, scrive il colonnello, “pronuncia ‘Oxenstierna’ in norvegese, ‘de la Garde’ in francese, e ‘Helsingborg’ in danese...” La sua relazione sentimentale “non ha fondamenti storici... È un grave insulto alla storia di Svezia, alla famiglia reale, alle donne svedesi dipingere la Regina come una ‘donna leggera’ che va a letto con un uomo assolutamente sconosciuto, incontrato solo da poche ore… Quanto allo ‘sconosciuto”‘ continua il colonnello, “la parrucca di Mister Gilbert è assolutamente troppo corta. Quasi tutti, in questo film, portano parrucche troppo corte... Pochissime le spade del genere giusto... Persone di alto rango non indossavano mai calzoni alla zuava di color chiaro... Il Parlamento non chiedeva a gran voce la guerra, il popolo era stanco della guerra”. Anche la scena dell’udienza mattutina di Cristina viene affrontata nei particolari: “Obiettai recisamente - e invano - sulla presenza di Aage nella camera da letto quando la Regina si veste, e anche sul suo aiutarla a vestirsi”. E cosa dice il colonnello della sequenza più celebrata di tutto il film? “L’intera scena nella locanda è completamente non svedese. Protestai - e invano - per le candele sui tavoli. Come per la scena in camera da letto... Ho già in precedenza sottolineato quanto questa scena sia offensiva per la famiglia reale svedese. Durante la maggior parte delle scene, il set fu tenuto chiuso, così non so quel che vi si facesse. Comunque, quando vidi mele, arance e uva portate verso il set, feci rilevare l’impossibilità che frutta simile venisse servita alla locanda, anche se fu avanzata l’idea che l’Ambasciatore avrebbe potuto averla portata lui dalla Spagna. Ma costui aveva viaggiato per settimane e, inoltre, col clima invernale svedese nessun genere di frutta può risultar mangiabile.”

Anni dopo, in Svezia, la Garbo deprecò la sua parte nel film dicendo: “ho tentato d’essere svedese... ma non c’è tempo per l’arte. Tutta la faccenda sta in ciò che chiamano botteghino”.

 

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