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Aggiornato Domenica 19-Mar-2006


INTERVISTA A PETER WEIR

(Trascritta dal DVD allegato nell’Ottobre del 2005 alla rivista “Ciak”)

 

D.: Qual’è stata la sua fonte d’ispirazione, il romanzo o il fatto di cronaca?

R.: Il primo impatto è stato con il romanzo e la sua introduzione che implicava fosse ispirato ad eventi reali. Io non conoscevo quella storia, ho letto il romanzo come pura narrativa. Mi catturò immediatamente, l’ho letto tutto d’un fiato. Mi chiesi se fosse una storia vera o no, e il perché di quella introduzione. Lo domandai all’autrice, Joan Lindsey, che all’epoca era ancora in vita, ma lei non ne volle parlare. Qualunque sia stato l’incidente che ha ispirato il romanzo, non ve n’è traccia nella stampa dell’epoca. Vi furono molti casi di sparizione nel bush, ma non questo. Non è mai stato appurato se il fatto avvenne esattamente così, potrebbe trattarsi di una metafora.

D.: Si dice che lei non abbia dato una “soluzione” al suo film. Lo spettatore non capisce perché le donne siano scomparse. Perché ha scelto questo finale?

R.: Il fatto che ci fosse un mistero senza soluzione era uno degli aspetti più interessanti di quella storia, perlomeno per me. Era anche l’aspetto più stimolante, perché è naturale che nella costruzione di una storia si proponga al pubblico una soluzione finale. Anche per me questo era scontato. Tuttavia, quando da ragazzo leggevo Sherlock Holmes, che adoravo, la cosa più deludente era il finale. Il colpevole era stato il maggiordomo o il cattivo di turno e tutto non era così imprevedibile come sembrava. Qui, invece, la tensione sta nel pensiero terrificante che qualcuno che conoscevi o amavi sia scomparso. Non è più vivo e non è morto, semplicemente non c’è più. Nella nostra cultura abbiamo bisogno di seppellire, è importante che ci sia una salma. Una ricerca che mi ha particolarmente interessato, è stata quella che coinvolgeva i parenti delle vittime della I° guerra mondiale, i cui bombardamenti polverizzarono la gente. All’inizio vennero considerati dispersi, poi morti presunti, e chi era rimasto rimaneva con questo grosso dubbio, andava a cercare negli ospedali nella speranza di scoprire che il proprio caro avesse perso la memoria per lo shock. Molte persone hanno vissuto questo tipo di esperienza. Succede anche oggi, Certo, molti scompaiono perché vogliono scomparire, ma esistono anche dei casi inspiegabili. Uno esce per andare a comprare il latte nel negozio all’angolo e non torna più. Questo spinge a porsi delle domande su cosa sia la vita, e su dove si vada dopo la morte. In un certo senso si scompare non si sa bene dove.

D.: Supponiamo che sia uno spettatore di questo film. Come spiegherebbe, lei, da spettatore, quelle sparizioni?

R.: Io non lo farei. Direi: “Certo, ci sarà una spiegazione logica”. Nel film la suggerisco durante l’indagine della polizia. Il giardiniere irlandese dice: “Saranno cadute in un buco”. Quella sua spiegazione in fondo mi piaceva. Se cerchiamo una risposta pragmatica, c’era una fenditura nella roccia, e nella vera Hanging Rock, non sono mai riusciti a misurarne la profondità. Gli strumenti di misurazione non hanno mi toccato il fondo. Quella roccia è il risultato di un’eruzione vulcanica avvenuta all’alba dei tempi, quindi c’è una sorta di crepaccio, di fenditura che porta chissà dove… forse al centro della terra. Abbastanza da suggerire che la terra le avesse inghiottite.

D.: Cosa crede le abbia attirate a Hanging Rock, verso il loro destino?

R.: Almeno nei miei pensieri, ho affrontato la questione degli aborigeni, dei nativi australiani. Quello era senza dubbio uno dei loro luoghi segreti, e questo si percepiva. Credo che certe persone siano sensibili a queste cose. Nel mondo ci sono luoghi, sia naturali che creati dall’uomo, che possiedono un’energia particolare, positiva o negativa. A me è capitato di sentire un’atmosfera strana, in Grecia, nel Peloponneso, e quando chiesi ai locali cosa fosse quel parco che sentivo sgradevole e sinistro, dissero che lì si era svolta una grande battaglia ai tempi dell’Impero Ellenico, con moltissimi morti. Questo tipo di esperienza è possibile, inoltre si sa che certi luoghi posseggono una forma di energia. Credo che Hanging Rock sia uno di quei luoghi. Si sente qualcosa e forse le ragazze, nel film, l’hanno avvertito. Era uno di quei momenti in cui si sente che sta per accadere qualcosa. Quando stavo girando “Fearless” che racconta di un disastro aereo, ho parlato con persone che sono sopravvissute. Mi dissero che su quel volo c’era un’atmosfera di attesa. Niente di negativo, nessuno pensava al disastro, ma tutto era più intenso nella sua realtà, era più vivido, le persone erano gentili, cordiali. A bordo di quell’aereo c’era un’atmosfera particolare che nessuno avrebbe potuto interpretare, come la congiunzione tra il destino e le loro vite. Se oggi potessimo intervistare una delle ragazze sopravvissute, se quella storia fosse davvero accaduta e potessimo parlare con chi non fu coinvolto nella sparizione, ci direbbe che quel giorno c’era un’atmosfera strana, che le esperienze di quella giornata erano state più intense. Ecco, credo di aver messo tutto questo nel mio film.

D.: Sara, Miranda, Mrs. Appleyard cosa rappresentano nel film?

R.: Credo che la direttrice sia una figura vittoriana, spinta dalla consapevolezza che la sua stessa sopravvivenza dipenda dalle rette pagate dalle studentesse. Quindi rischia molto, deve minimizzare la situazione. Miranda si può descrivere con un’antica parola inglese, forse di origine scozzese, “fey”, che indica una persona in grado di vedere le fate. A posteriori, si può dire che, quel giorno, lei “sente” che sta per succederle qualcosa. E’ come se fosse la promessa sposa della morte e si stia preparando per quell’appuntamento. Lei non lo sa, questo è ovvio, ma tutto, dal modo in cui si spazzola i capelli all’inizio, canticchiando una canzoncina, trasmette calma, come se tutto fosse deciso e non dipendesse più da lei e dalle sue azioni, ma da un essere supremo. Lei ne è consapevole, è sensitiva.

D.: Ritiene che ci sia un sottinteso sessuale nel rapporto che lega Sara a Miranda?

R.: Ritengo che a quell’età delle ragazzine che vivono nell’Outback, rinchiuse in un mausoleo con i loro ormoni, i loro sogni, i loro ideali romantici, vivano una certa tensione sessuale, ma senza un indirizzo preciso. E’ comprensibile che succeda. Di solito si pensa che riguardi solo le scuole maschili, ma solo perché l’eccitazione maschile è più evidente, più scontata. Succede la stessa cosa alle giovani donne, ma è più impercettibile, discreta. Sono pronte per l’amore, sentono il calore del sole sulla pelle, le dita sui capelli, il contatto tra di loro, anche se innocente. Si vogliono bene e si scambiano i bigliettini per San Valentino. E’ la naturale sensualità di quelle giovani donne che in un certo senso viene dirottata dalle circostanze.

D.: Gli orologi che si fermano, il deserto roccioso australiano, gli animali vengono fissati magistralmente dalla cinepresa. Cosa simboleggiano tutti questi elementi nel suo film?

R.: E’ chiaro che ho voluto descrivere un mondo naturale, un mondo australiano estremamente crudo e selvaggio, che non ha assistito a battaglie o a costruzioni di grandi Imperi con il loro alternarsi di glorie e fallimenti. E’ qualcosa che è fermo all’alba dei tempi, ed è come se quella scuola in pietra fosse una navicella spaziale arrivata da un altro pianeta. Tra le mura di quel collegio c’è il senso dell’ordine e la società, collanti che tengono insieme un mondo e le sue convinzioni, contrapposto agli aspetti ignoti della natura, alla sua crudeltà e alle sue stranezze. Il suo richiamo è irresistibile ed è parte integrante della storia. Se la terra ha ingoiato quelle ragazze è perché la terra opera in modo diverso dalla società.

D.: E’ un tema abbastanza ricorrente: per quasi tutta la durata del film in fondo si assiste al conflitto tra cultura e natura. Lei è d’accordo? Può dirci qualcosa in merito?

R.: Credo si molto presente anche nella nostra vita. E’ meno evidente nell’ambiente urbano, ma gli australiani ci convivono sin dalla nascita. La mia famiglia è di origini scozzesi, è qui da tre generazioni, quindi io sono di cultura europea ma sono anche sradicato perché fondamentalmente c’è stato un taglio con il passato, più netto di quanto sia avvenuto per gli immigrati in America. Arrivare in Australia alla fine del ‘700 era un viaggio di 6 mesi e tornare indietro era costoso. Furono pochissimi quelli che tornarono. Anche all’interno delle colonie di forzati, su 160.000 persone che arrivarono, uomini, donne, bambini, solo il 5% tornò indietro, perché una volta scontata la pena si compravano un pezzo di terra o gliene veniva data un pezzo perché l’idea era che gli ex forzati non dovessero più tornare. Il gruppo più nutrito di coloni arrivò per ragioni economiche e qui si fermò: una volta che hai investito non torni indietro. Quindi abbiamo un taglio con il passato e un nuovo inizio. Una sorta di esperimento. Se tornassi in Scozia non proverei nulla, non conoscerei nessuno, non saprei niente delle mie radici. E’ facile ritrovarsi in un ambiente estraneo non appena ci si addentra nell’Outback. Percepisci la collisione tra la cultura europea, con la quale sei nato e cresciuto, e la realtà dell’ambiente in cui sei molto lontano dalla storia e molto estraneo, un ambiente duro e molto interessante.

D.: Le musiche sono magnifiche. Perché ha scelto proprio quel tipo di musica? Cosa desiderava evocare?

R.: Il flauto di Pan suonato da Gheorghe Zamfir, ha un ruolo chiave. Non esiste uno strumento più antico. E’ lo strumento dei pastori, che riporta hai misteri della mitologia greca e ben si adattava all’atmosfera pre-cristiana di quel paesaggio, un mondo antichissimo del quale non si conoscono le regole. Non sono le regole con le quali siamo cresciuti. Come spettatori o come studentesse del collegio Appleyard, ci si può aspettare di tutto.

D.: Qual è la prima cosa che le viene in mente ripensando al set? E’ avvenuto qualche episodio particolare durante le riprese?

R.: Non mi viene in mente un episodio particolare, ma so che nacquero dei forti legami di amicizia, in particolare tra le ragazze. Ricordo quando Rachel Roberts venne sul set. Lei arrivò più tardi, nel cast, avevamo già girato diverse scene. Sostituiva, nel ruolo della direttrice, Vivine Merchant, un’attrice inglese che aveva rinunciato all’ultimo momento, ed io scelsi Rachel dopo aver visto alcuni suoi film. Quando arrivò trovò un’atmosfera di grande ostilità perché, come le ragazze del film, le attrici avevano stretto un forte legame di amicizia, erano ormai entrate nella parte e in più giravamo in esterni, non avevamo ricreato un set. Appena la videro la presero in antipatia. Lei è lì di fronte a me: immagini che qui ci fossero le ragazze e dovessimo girare il controcampo della direttrice… quando era il suo turno chiedeva di togliere le ragazze, preferiva guardare dei cartoncini bianchi, perché nei loro occhi vedeva qualcosa che la disturbava.

D.: Cosa rappresentò, il film, per lei e per il cinema australiano?

R.: Per il cinema australiano quel periodo è stato una rinascita, noi lo chiamiamo il Rinascimento, e mi scuso se uso questo termine con il pubblico italiano, visto che l’avete inventato voi. Ma è stata una rinascita per l’industria cinematografica. Eravamo agli inizi, tutto era una pietra miliare e quel film fu una delle tante pietre miliari di quel periodo. Venne accettato ai festival e apprezzato a livello mondiale. Per noi fu entusiasmante sentirci in grado di realizzare dei film da presentare al mondo intero. Personalmente, quello era il mio secondo lungometraggio e credo che all’epoca fossi un po’ folle, in un certo senso. Dentro di me, non esteriormente. Volevo che funzionasse, avesse successo. Il mio primo film non aveva avuto successo commerciale, non l’aveva visto nessuno e desideravo che il secondo conquistasse il pubblico. Così m’immersi totalmente nel mondo del film e feci tutto il possibile affinché ogni cosa funzionasse. Temevo le reazioni negative riguardo al finale. Hanno pagato dei soldi, c’è un mistero e non c’è una soluzione. Un furto. Ho dovuto usare tutta la perizia che all’epoca possedevo per togliere al pubblico le aspettative di una soluzione, per esempio grazie alla polizia, così ho cercato d’introdurre una sorta di magnetismo tra le immagini e il pubblico per accompagnarlo in un’altra struttura di pensiero, senza più aspettative.

D.: Peter, quali sono i registi hai quali si è ispirato?

R.: Niente ispira di più di un buon film, chiunque l’abbia diretto. Questo lo penso oggi ma all’inizio della carriera nel cinema commerciale amavo Stanley Kubrick che dimostrava possibile raggiungere il grande pubblico mantenendo intatti la propria integrità artistica e il proprio tocco personale. Altri registi della fine degli anni ‘60, primi ’70, erano Roman Polanski, che m’ispirò molto, e Kurosawa. Andando ancora più indietro, direi che i film di Chaplin mi avevano molto colpito, con i loro tempi. E Hitchcock, ovviamente: tutti hanno imparato molto da lui. Mi piaceva il cinema muto, ho dedicato parecchio tempo al cinema russo, a quello tedesco, a Hitchcock e al cinema muto inglese ma anche a quello americano: mi interessavano molto Buster Keton e D.W.Griffith, ma anche oggi mi piace, ogni tanto, guardare i film muti. Niente parole, si racconta una storia solo con le immagini.

 

 

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