
Con Paola fisso un incontro a Firenze. Ho avuto il suo numero da Mirella. Non so niente di lei. Appuntamento in Piazza della Signoria, sotto lo splendido “Perseo”.
Il caldo arroventa l’aria, mi manca il respiro. È in ritardo – mezzora circa. Guardo l’orologio e comincio a disperarmi – rinunciare al cellulare ha le sue controindicazioni. Ormai sono sul punto di andarmene…
«Cinzia?». Mi volto. Paola è un donnone sulla sessantina, tanti capelli, mossi e ben curati, trucco un po’ pesante, troppi anelli. “È un’insegnate” - scommetto con me stessa. Mi avvicino con un sorriso che, mi rendo conto, è alquanto forzato. Ci diamo la mano. Ha una presa più forte della mia e questo mi rincuora – odio stringere budini. «Scusa il ritardo (ti do del tu, hai l’aria di una ragazzina) ma ho avuto un contrattempo…» – più tardi confesserà di avermi osservata a lungo prima di decidersi. «Figurati,» - le dico - «nessun problema». Mento spudoratamente.
Mi propone di andare a bere qualcosa da certi suoi amici. «C’è l’aria condizionata» - m’informa. Accetto con gratitudine e in cuor mio mi auguro di non dover camminare a lungo, sono completamente disidratata, potrei svenire. Penso anche con imbarazzo che deve aver notato il mio disagio. Lei invece è curatissima, fresca, per niente affaticata – mi chiedo come diavolo fa.
Imbocchiamo una serie di vicoli deliziosi e strada facendo mi racconta che da quando si è trasferita in campagna la sua vita è completamente cambiata, si sente rinata. «La città non è il posto adatto per chi ha bisogno di pace e silenzio» – la guardo di nascosto e proprio non mi sembra una donna capace di far l’uncinetto davanti al camino. I suoi modi sono spicci ma non privi di una certa eleganza. La trovo un po’ volgare, ma affascinate. È una guerriera, non una paciosa campagnola. Penso che è una borghese, i proletari sudano e puzzano… voglio un bagno!
In men che non si dica arriviamo in una specie di taverna, temperatura salvifica, tavolacci in massello, accoglienza festosa.
«Questa è Cinzia, una mia nuova amica» - troppa confidenza mi rende diffidente. Ormai mi sento completamente inadeguata. Arranco verso il bagno, metto la testa sotto l’acqua e mi chiedo chi me l’ha fatto fare. Va meglio. Quando esco, Paola ha già ordinato una bottiglia di Brunello. Detesto il vino. Sul tavolo olive, vari formaggi, una ciotola che suppongo contenga miele. «Un piccolo spuntino, per ammortizzare». Mentalmente faccio il conto degli euro che ho nel portafoglio – sudo freddo.
Ma lei ride. È affabile. Versa il vino senza farne cadere una goccia. Intinge un pezzetto di formaggio nel miele e me lo porge: «Assaggia, è squisito». Improvvisamente sento una specie di formicolio che partendo dall’attaccatura del collo raggiunge la fronte e torna indietro. Il vino ha già fatto la sua prima vittima – penso.
Tiro fuori un blocchetto per gli appunti ma lei mi ferma: «Preferirei che tu scrivessi quello che ricordi. Questa non è un’intervista, è una conversazione che spero sarà piacevole per entrambe». Poi, a bruciapelo: «Quanti anni hai?»
Vorrei scavare una buca e finirci dentro – ma non ero io quella che doveva fare le domande? Una conversazione? E adesso che le racconto? Panico... «Quaranta a marzo».
«Incredibile, non te ne davo più di trenta - ma come fai?»
«Lavoro poco». Dio, una risposta più cretina non poteva venirmi. Ultima spiaggia: chiedo se posso fumare.
«Certamente». Si alza e torna con un posacenere.
Tiro fuori il trinciato. Paola è stupita: «Era una vita che non vedevo una cosa del genere… Quante sorprese…». Guarda attentamente i miei gesti, evito di incrociare il suo sguardo – mi confonde. Quando arriva il momento di inumidire la cartina ho un attimo di esitazione, pudore. Lei sorride e mi leva d’impiccio: «Posso provare?». Che domanda, certo! Le passo la busta di cuoio e mentre è impegnata a stropicciare malamente una cartina ricolma di tabacco, ne approfitto e lecco, furtiva. L’intervista si trasforma in un corso per aspiranti tabagisti. Le mostro i movimenti, dispongo le sue dita. È docile, divertente. Ogni tentativo è vano. “Sono una fumatrice pentita,” – confessa – “ma se me ne fai una un piccolo strappo lo faccio”. La rimprovero ma lei mi assicura che quella è un’occasione speciale, non ricomincerà. Senza rendermene conto preparo un’altra sigaretta e nel porgergliela le chiedo cosa fa nella vita, di cosa si occupa. Mi spiega che è stata una docente universitaria, ma quando morì suo marito cadde in una depressione tremenda che la costrinse a lasciare l’insegnamento. «Lo amavo molto, la sua morte mi ha lungamente ottenebrata. Non abbiamo potuto avere figli, ma in fondo non sono sicura di averli mai voluti davvero, né credo mi sarebbero stati di conforto. A onor del vero non eravamo nemmeno sposati, sebbene conducessimo una vita perfettamente matrimoniale».
Chiedo spiegazioni.
«Eravamo contrari al matrimonio – non è un pezzo di carta, un rito religioso o civile che può definire, contenere, legittimare una relazione. Sono tutte stupidate, forme illusorie di controllo, repressione, potere, il tentativo di formalizzare la cosa più irrazionale: l’amore – un patto che solo due esseri evoluti possono comprendere e onorare senza ricorrere a stratagemmi e sotterfugi, senza aver bisogno di alcun riconoscimento giuridico e sociale. La pensavamo alla stessa maniera su moltissime cose…».
Ho il dubbio che questa donna non abbia nulla a che fare con la mia inchiesta. Le chiedo se Mirella l’ha adeguatamente informata e lei, candida: «Ho una relazione con una donna, se è quello che vuoi sapere, ma non sono lesbica».
La mia faccia dev’essere un enorme punto interrogativo perché scoppia a ridere: «Non ti pare un’operazione alquanto sporca quella di voler incasellare a tutti i costi l’umanità? Non ti sembra che questo sia il modo migliore per mettere gli uni contro gli altri, per impedire reciprocità, conoscenza, consapevolezza? La pigrizia è la cancrena che affligge gli uomini, ma è l’ignoranza l’arma più potente e devastante che hanno per farsi la guerra, per continuare ad oziare, eludere responsabilità, doveri. L’ignoranza genera la paura che nella pigrizia prospera – e niente muta...»
Vacillo - maledetto Brunello.
Stando così le cose mi sembra superfluo domandare se abbia fatto il coming-out, ma non voglio lasciare niente d’intentato.
«Non ne ho bisogno, né serve».
«Ok,» - dico - «ma allora perché hai accettato d’incontrarmi?»
«Perché nessuno affronta da questo punto di vista quello che per me era e rimane un falso problema.»
Ammetto di non essere all’altezza. Faccio fatica. Poi, non so come, ci ritroviamo a parlare a ruota libera: amore, amicizia, viaggi, il talento, il tempo, il corpo, l’arte, la vita… Quando distolgo lo sguardo dai suoi occhi neri e profondi scopro che sul tavolo ci sono due bottiglie vuote, che il locale è gremito di gente, che fuori è buio già da un pezzo.
È tardi. Vorrei non dover andare ma se perdo anche il prossimo treno sono rovinata.
«Come, non hai la macchina?»
«No, Paola, ma se un giorno verrai a Lucca ti porterò a fare un giro sul mio Apino…»
«Che bello, ho sempre desiderato di guidarne uno! M’insegnerai?»
«Guarda che non è mica semplice…»
«Capirai!»
«Scommettiamo?»
«Scommettiamo…».

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