
In seguito all’ufficializzazione di “Borderline” ricevo molte lettere, da tutta Italia. Ognuna mi colpisce e vorrei approfondire, ma la distanza fra me e le mie interlocutrici era e resta incolmabile.
Lina mi scrive, le rispondo, mi scrive ancora – infine ci sentiamo per telefono. Ha letto le mails di Rosa ed è stupita: «Pensavo di essere l’unica scema al mondo che prendeva le botte da una donna…» - non c’è ironia nelle sue parole, tutt’altro. Le chiedo se vuole scrivere la sua storia e lei mi confessa di non esserne capace: «Ci ho provato, ma mi blocco – è come se improvvisamente non sapessi più fare a scrivere… È mortificante». Parliamo un po’, è affranta. Le spiego che vorrei tanto poterla incontrare ma non posso proprio permettermelo. Anche lei ha parecchie difficoltà economiche: è una colonna portante del precariato di stato e poiché almeno per il momento non ha prospettive di lavoro, è ragionevolmente spaventata dal costo di una lunga trasferta. Mille chilometri non sono uno scherzo – lo so. Alla fine si fa coraggio…
Vado a prenderla alla stazione. Il treno proveniente da Firenze spacca il minuto. Mi metto quieta e ben in vista davanti all’edicola. Mi viene incontro una signora brizzolata, valigia con rotelle, un paio di libri ed un pacchetto regalo in mano. Ci presentiamo festosamente. Mi offro di portarle la valigia – rifiuta con decisione e mi porge il pacchetto: «Cioccolatini… Non sapevo cos’altro portarti». Ha un bel sorriso, mansueto e dolce. Il suo marcato accento del sud è musica per le mie orecchie. La ringrazio e scherzo sui miei chili di troppo che il suo “pensiero gentile” non contribuirà a diminuire. «Mal comune mezzo gaudio», dice ridendo.
L’accompagno sino all’affittacamere dove le ho prenotato una stanza, in centro. Strada facendo le racconto qualche simpatica amenità lucchese, le indico i monumenti, le chiese, le poche insegne liberty sopravvissute allo scriteriato modernismo dei negozianti. Lina arranca, nondimeno, forse più per gentilezza che per sincero interesse, si guarda intorno ammirata. Finalmente giungiamo a destinazione e ci diamo appuntamento per il tardo pomeriggio così avrà il tempo di rinfrescarsi e riposare.
Alle sei torno a prenderla. Ha un’aria decisamente più rilassata. Mi confessa di essere uscita e di aver fatto una passeggiata sulle mura: «Sei fortunata,» – dice – «vivi in una città bellissima. Io sto in un quartiere popolare, c’è da aver paura anche solo a mettere il naso fuori di casa: spacciatori, delinquenti, palazzi fatiscenti, non ci sono marciapiedi, non c’è un giardino, un parco, non c’è niente, solo desolazione, ignoranza, sporcizia… Qui invece è tutto pulito, ordinato, a misura…». Annuisco pensando alle enormi contraddizioni che ci affliggono ma non sono evidenti come un’aiuola fiorita o un cassonetto abbandonato… Le propongo un aperitivo e poi una cenetta in trattoria. Accetta con entusiasmo.
Davanti ad un long drink alla frutta rompiamo il ghiaccio.
«Vengo da una famiglia molto numerosa - sedici in tutto: cinque fratelli, quattro sorelle, mamma, papà, nonni e uno zio celibe, sarto e gay. La casa non era grande, ma come capita spesso dalle mie parti, quello che contava era stare tutti insieme, essere uniti. I momenti più belli e caotici erano quando ci mettevamo a tavola. Ci sono mancate molte cose ma mai un piatto di minestra, una risata, uno scherzo. Siamo stati educati alla generosità, a dividere tutto con allegria, ad aver rispetto degli altri, a non impicciarci della loro vita. Il motto di famiglia era “vivi e lascia vivere” – così è stato, sempre. Ma le cose cambiano – un po’ alla volta sono venuti a mancare i nonni, poi la mamma, papà, lo zio… su nove fratelli che eravamo siamo rimasti in cinque e il Natale, la vita non è più la stessa. È successo tutto nel giro di quindici anni… Era come stare sotto un albero carico di frutti maturi: prima ne è caduto uno, poi un altro e un altro ancora – una mattanza. Alla fine ci siamo separati, chi è andato all’estero, chi si è trasferito al nord – io ho scelto di rimanere vicino a mia sorella, la minore… Il marito le fatto fare una vita d’inferno, ma ha dei bambini così belli – li amo tanto…»
Le chiedo se ha figli, se è stata sposata.
«Ho un esercito di nipoti, ma figli no, non ne ho avuto né il tempo né l’occasione. Mio marito mi ha piantata per una ballerina polacca che lavorava su una nave da crociera, non ho sofferto neanche un po’, facevo la serva dalla mattina alla sera per lui e la sua famiglia, mi ha fatto un favore ad andarsene: un piatto in meno da lavare. Ho fatto le valigie e sono tornata a casa dove, nel frattempo, erano rimaste solo le mie sorelle più piccole ed un fratello che però è morto poco dopo…» Pago gli aperitivi e mentre ci alziamo le chiedo con imbarazzo di raccontarmi la sua vicenda.
«Violenza…» - mi prende sottobraccio - «Cara Cinzia, sapessi com’è strana la vita! In casa mia non è mai volato nemmeno un ceffone e cosa mi capita? D’incontrare una donna, innamorarmene perdutamente e farmi gonfiare da lei per cinque anni. Quando ho letto le mails di Rosa ho fatto un salto sulla sedia. Le stesse motivazioni, la stessa paura, la stessa vergogna… Ma ti va se ne parliamo dopo? Raccontami di te…»
Decidiamo di fare una passeggiata prima di raggiungere la trattoria. È rilassata. Standole così vicino ho modo di apprezzarne il profumo e stranamente il contatto fisico non mi disturba, anzi. Le racconto che in casa mia non passava giorno senza una tragedia, che le botte erano una consuetudine ma no, mai prese da una donna (a parte mia madre, naturalmente), anche se una volta una tipa ci ha provato: «Non ci crederai,» – le dico - «mi ha difesa la mia gatta e quella si è presa una tale paura che non si è più azzardata.»
Via Fillungo è affollata. Lina si ferma davanti alle vetrine, rimugina sui prezzi, si stupisce della gran quantità di banche, gioiellerie, negozi di scarpe, vestiti, ottica, tutto rigorosamente griffato. «Ma dove sono gli alimentari, i lucchesi non mangiano?» - chiede stupita.
«Solo patate, altrimenti come farebbero a finanziarsi il look?»
«Ah, ecco!» - ridiamo.
Arriviamo in trattoria. Le consiglio la zuppa di farro e come al solito ho difficoltà a spiegare cos’è: «La mangio da una vita e da una vita la consiglio. L’avrò sentita spiegare miliardi di volte e ancora non ci ho capito nulla… Ho lo stesso problema con la briscola…» - Lina mi guarda attentamente con un’espressione interrogativa tipo: “ma lo è o ci fa?” - lo sono. Il cameriere è cortese nonostante sia costretto a ripetere per ben tre volte di seguito i piatti del giorno, alla fine ci decidiamo e se va – visibilmente sollevato.
Lina prende fiato e comincia: «Giusy aveva un negozio di giocattoli. L’ho conosciuta così, andando a fare acquisti per i miei nipoti. Si stava separando dal marito e visto che anch’io mi trovavo nella stessa condizione, gli argomenti non mancavano. Una chiacchiera tira l’altra e dopo un po’ cominciammo ad uscire insieme: cinema, teatro, passeggiate in riva al mare… Era affettuosa, premurosa, disponibile… Ad un certo punto mi divenne indispensabile. Mi resi conto che se non la vedevo stavo male, mi mancava terribilmente e lei ne approfittò: se la cercavo m’ignorava, se smettevo di cercarla ricompariva, se le chiedevo spiegazioni s’infuriava, se me ne disinteressavo anche, con una mano dava e con l’altra toglieva… Non riuscivo a capire il suo comportamento né perché ne soffrissi tanto. Quando fui sul punto di mandarla al diavolo seppe sorprendermi e disarmarmi mettendomi di fronte alla mia verità: l’amavo e lei pure, mi disse, dovevo arrendermi all’evidenza o sparire dalla sua vita, per sempre. Dio, come sapeva rigirare le frittate. Mi arresi e per qualche mese tutto andò a meraviglia. Mi chiese di andare a vivere da lei ed io, sebbene non mi facesse piacere lasciare sole le mie sorelle, accettai. Fu la prima sciocchezza che feci, la seconda fu abbandonare l’insegnamento per darle una mano in negozio. Vivevo una doppia vita: in casa scenate violentissime, ricatti, soprusi – fuori casa sorrisi, riverenze. Per gli amici e i parenti la nostra era un’amicizia perfetta, in realtà era un disastro che con il tempo peggiorava. Giusy era gelosa di tutto: delle mie sorelle, dei miei nipoti, degli amici, dei suoi clienti, di chiunque. Aveva il terrore che la lasciassi, rimpiazzassi…» - avanzo timidamente l’ipotesi che fosse affetta dalla “sindrome dell’abbandono” e penso fra me a quanti problemi mi ha dato soffrirne - «… e gelosia patologica, anche! A dei livelli che non riusciva a controllare. Cominciò con uno schiaffo - dovetti rassicurarla, consolarla: no, non mi aveva fatto male… poi gli schiaffi divennero due, tre, seguiti da calci, pugni… mi lasciava in terra dolorante, talvolta scappava, oppure continuava ad inveire, ma sempre alla fine scoppiava a piangere, si disperava come una bambina, mi supplicava di perdonarla ed io non riuscivo ad odiarla, a reagire, a dirlo a nessuno… Mi tenevo tutto dentro, ne avevo vergogna... A chi avrei potuto chiedere aiuto? E poi: per quale ragione avrei dovuto difendermi? Quale torbido legame ci aveva portate a tanto? Non eravamo mica parenti, non eravamo una normale coppia eterosessuale mediamente disastrata, non appartenevamo a nessuna categoria riconosciuta, protetta... Ma la verità era che l’amavo e non ho mai pensato di rivolgermi seriamente a qualcuno. Giusy era malata. Pensavo che se avessi sopportato, aspettato, con il tempo avremmo risolto il problema. Mi sbagliavo, non era di me che aveva bisogno, ma di uno specialista - e forse anch’io…»
Lina taglia il filetto con metodo scientifico, usa il coltello come fosse un bisturi. La osservo e scopro che quando si accalora le si arriccia il mento. Gli occhi, di un bell’azzurro intenso, scintillano trafiggendo i miei…
«Sua madre la massacrava di botte. Era una bacchettona mezza alcolizzata – sempre in chiesa e poi a casa… Beh, non mi crederai, ma Giusy non ha mai smesso di giustificarla e proteggerla. Credo che per lei l’amore sia inscindibile dalla violenza, penso che abbia imparato ad esercitarla per non subirla. Il suo matrimonio è fallito anche per questo: quando perdeva le staffe suo marito non riusciva a gestirla, non se la sentiva di difendersi. Sai, era un uomo gentile e sensibile, non senza carattere, un debole, come lei lo descriveva…»
Le chiedo come ha fatto ad uscirne.
«Non ne sono uscita io, ma lei. Un giorno rientro a casa e la trovo che mi prepara le valigie. “Che fai?” – le chiedo. “Non ce la faccio più…” – mi dice – “quando mi lascerai io non potrò sopportarlo. È meglio che te ne vai, ora.” Sudava, le mani le tremavano, lo sguardo però era fermo, deciso. Cercai di farla ragionare ma fu categorica: “Dammi retta, Lina, non fartelo ripetere – vattene adesso e non tornare più!”. Se mi fossi opposta non so come sarebbe andata a finire. Presi le mie borse e corsi via, tornai da mia sorella… Pensa, non riesco ancora a dirle quello che è successo, cosa c’è stato fra me e Giusy, tu sei una delle pochissime persone alle quali bene o male ho raccontato questa storia pazzesca.»
Il cameriere c’interrompe. Ordino due “bombe” tranquillizzandola: «Caffè sopra e sotto un misto di rum, sassolino e cognac – ti piacerà». Quando restiamo sole sospirando prosegue: «Chissà, forse mi sarei fatta ammazzare… Per assurdo che possa sembrare, Giusy ha dimostrato di avere più giudizio di me. Non so se l’avrei lasciata, ma certamente qualsiasi cosa dicessi non serviva a nulla: il suo demone parlava per me, la sua voce era più forte della mia, le sue ragioni più importanti, forse, prima o poi, non ce l’avrebbe fatta a trattenersi… Penso che mi abbia amata davvero molto, certo, in un modo malato, insano, ma vero e sincero. La penso ancora – e mi manca. Strano, vero?»
Le chiedo se l’ha più vista.
«Talvolta mi capita: al mercato, per strada, quando passo davanti al suo negozio – è un tuffo al cuore. Vorrei farle sapere che so, che non ce l’ho con lei, che le sono grata di avermi lasciata andare, ma non sono sicura che capirebbe quello che voglio dire… Da parecchio tempo ha una relazione con una specie di buzzurro, mi hanno detto che picchiava la moglie…» - sospira, ancora, profondamente.
«E tu?» - le chiedo.
«Ho avuto qualche avventura, ma niente di serio. D’altronde, ad essere sincera, non ne sento una grande necessità. Ho i miei nipoti, mia sorella, qualche caro amico, tanti interessi…»
Lina si oppone con tutte le sue forze ma riesco ugualmente a pagare il conto. Ci alziamo. Nuovamente mi prende sottobraccio e ci avviamo verso l’affittacamere. L’aria è pungente, il vento stacca le prime foglie ingiallite, intorno profumo di dolciumi, e festa. Settembre. Un cane cammina stringendo fra i denti un osso. Dalle finestre ancora aperte giungono voci, risate, silenzi.
Passeggiamo lente, assaporiamo il piacere di saperci straniere, lasciamo i pensieri liberi di andarsene dove vogliono – senza ansietà, strette una all’altra come vecchie, care amiche.
«Grazie per la bella serata… Sono contenta di averti incontrata.» Arrossisco. Ci abbracciamo calorosamente e allontanandomi mi volto per salutarla ancora, vederla sparire al di là del portone.
Grazie a te, Lina. Infinite volte grazie. Di tutto.

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