“Ho sentito una musica provenire dal mare:
raccontava una storia triste d’archi grevi come voci umane –
ricordava la guerra, invece parlava d’amore…
Ho visto una danza attraverso il vento:
sembrava un corpo fiero di fanciulla appeso ad una testa di vecchia –
era una metafora di morte eppure ballava!
Ho scritto frammenti di cielo per fermarli nel tempo.”
Eccomi qua, silenziosa e attenta. Fuori ha smesso di piovere, l’aria è tiepida, gentile il vento, cara quest’atmosfera familiare eppure disattesa. Il nuovo disco di Alice che da giorni non mi abbandona (è splendido), il cane che finalmente si è calmato, riposa, un’altra sigaretta… Mi guardo intorno - e dentro. Un senso di tristezza mi ha presa – una stanchezza antica, una malinconia sottile e piacevole mi accompagna mentre riordino gli appunti, mentre penso a come introdurre, imbastire la prossima storia, mentre tornano le voci, i visi, come fantasmi o profumi che nessuna parola potrà raccontare, nessun marchingegno catturare, nessuna scatola contenere.
Penso agli appuntamenti mancati, alle promesse non mantenute, alla facilità con la quale lasciamo andar via le persone o le allontaniamo da noi, alle occasioni sprecate che non torneranno, alle lacrime e ai sorrisi rimasti senza nome, comunque impressi nella mente, sospesi nell’aria come una frase spezzata.
Penso ad Eleonora, Cristina, Lina, Giusy, Mirella, Antonia, Paola, Marilù, Giulia, Nico, Mary, Vivy, Andrea, Roberta, Franca, Rosaria, Ersilia, Chiara, Costanza, Imma, Piera, Carla – penso a tutte le donne che ho conosciuto e quelle che incontrerò, quelle che ho dimenticato e quelle che non potrò cancellare, quelle con le quali potrò spezzare il pane, e quelle contro le quali dovrò combattere.
Donne. Donne del passato e del futuro, donne nel presente. Spietate o indulgenti, eroiche o miserabili. Donne come me, capaci di concepire e uccidere. Dee imperfette e cicliche che percosse percuotono – e segnano. Echi di luce nel buio - lame scintillanti, o lanterne, lucciole, memoria di stelle. Donne che portano il fardello e lo impongono, come le dita sulla fronte a disegnare una croce, quella sì, vera – e viva, sanguinante.
Donne riflesse, nello specchio infinite volte ripetute, uguali, differenti. La maschera calata sugli occhi per farsi più belle, l’andatura provvisoria, distratta – traccia lieve o profonda che il mare invariabilmente cancella, l’orda copre e confonde, la storia sottace o nega.
Ho passi di lumaca su brandelli d’esistenza.
Ecco, riprendo fiato e posso, adesso, proseguire il cammino – sull’orlo di quel precipizio che la vita mi ha offerto.
* * *
Costanza aveva avuto una vita infelice, tempestata di pretese che avrebbe dovuto soddisfare, più grandi di lei e, come spesso capita, lontane anni luce da quello che probabilmente avrebbe potuto e voluto fare. Nata e cresciuta in una famiglia alto borghese caduta in disgrazia, sin da bambina si era sentita in obbligo di accontentare i propri genitori – non poteva fare a meno di compiacerli, di adeguarsi alle loro manie di grandezza, di soccombere al loro incrollabile egoismo, al loro opportunistico moralismo. Volevano fare di lei una violinista di prima grandezza, le stavano addosso in modo che se fosse arrivata in alto li avrebbe trascinati su con lei, portati dove credevano di avere il diritto di stare – nient’altro contava. Così, sebbene amasse Sara e la musica, e più di ogni altra cosa al mondo desiderasse vivere di loro, quando giunse il momento di diplomarsi, tanta era la paura di non riuscire che ebbe un crollo nervoso dal quale non riemerse mai. Sara non poté seguirla nel baratro della pazzia.
Imma era nata e cresciuta in una famiglia piccolo borghese eterodossa, normalmente omofoba ma senza esagerare. Aveva avuto un’infanzia felice, ricca di stimoli e incoraggiamenti. Aveva potuto essere e fare quello che voleva: fidanzarsi e convivere, andare all’estero, tornare e ricominciare tutto daccapo - più di una volta. Era allegra, socievole, generosa. Si scoprì lesbica a venticinque anni e ne fu contenta, mantenne il segreto perché «non è su questo che si giocano le relazioni».
Adriana conobbe Costanza tramite gli annunci. A quel tempo internet era ancora di là da venire, se non si frequentavano certi ambienti non c’era altro modo per trovarsi. Per più di tre mesi si scrissero al fermo posta. Costanza non volle darle il suo numero telefonico ma talvolta la chiamava, spesso nel cuore della notte. Fu il tempo delle parole, appassionate, piene di poesia, sospiri, incantamenti, promesse…
Nuvola, sarò una nuvola...
Vuoi la pioggia, tesoro?
Avrai la pioggia e il sole.
Vuoi un cielo di comete?
Te ne regalerò una collana.
Vuoi carezzare il mio ventre?
Sarò una ferita generosa che elargisce miele.
Armonia, sono armonia –
E per te ho inventato
Una notte da colorare.
E ancora…
“Nuda, sono completamente nuda - pronta come un letto nuziale, ebbra d’una coscienza che mi stordisce ed anima. (…) Sono leggera e greve, già gravida d’un figlio-amore che faticherà a crescere e forse non ci sopravvivrà. (…) Aria di collina - e festa. Ma mi accontento d’un alito di vento e la tua bella voce promessa. (…) Ah, il potere evocativo delle parole - ora sei nella mia vita come una spina nel fianco! (…) Gioco con le parole come i bambini la sabbia.”
Adriana s’innamorò del proprio ideale di bellezza perché Costanza seppe incarnarlo da attrice consumata. Dopo molti appuntamenti saltati all’ultimo momento, finalmente s’incontrarono...
“Mi vedo camminare e da sotto l’ombrello
sento fra i capelli la pioggia aggrapparsi
come lacrime su una guancia di seta.”
Era una giornata piovosa e grigia. Sotto il suo ombrello arcobaleno, Adriana l’aspettava trepidante, sperando di non essere troppo inadeguata per quella donna tanto importante, raffinata, prudente. Costanza apparve, bella come un angelo, elegante, calma. La prese sottobraccio e parlò di cose meravigliose che la fecero sognare: i concerti, la musica, il cascinale nel chiantigiano con il suo antico caminetto davanti al quale avrebbero trascorso il tempo, chiacchierando, la legna che arde nelle fredde notti d’inverno, l’attico in città e le quiete sere leggendo, scrivendo poesie d’amore…
“Come può avvedersi del ragno
la mosca che è intenta a suggere
il nettare buono di un fiore?”
Adriana si offrì senza reticenze, senza farsi domande, felice e grata, cieca. Costanza mosse le ali come in una danza i fianchi. Volteggiò, poi sparì senza dar più notizie di sé.
Adriana tornò a scriverle…
“Posso capire senza sbattere la testa contro il muro - posso accettare senza venire a cercarti per sbatterci la tua. (…) So che mi sai ascoltare e che, forse, persino capisci. Quello che ancora non so è a quale croce o delizia mi hai destinata. (…) Mi manchi, dici - vanagloria telefonica, onore, vanto o consolazione del maniaco, dell’assassino, del burattinaio.”
Sapeva che non si dovrebbe permettere all’altro di avere il potere incondizionato sui tempi dell’amore, ma Costanza era più forte di lei, aveva interiorizzato i suoi desideri, li aveva fatti propri - tessendo la sua tela in fondo l’accontentava...
“Demonio e angelo - certo. Come me - dipende.
Anima a peso o a calo - come il vino.
M’illudi ed io ne godo.
Ti sento come un canto di balena, adesso,
Un vociferare confuso o i sonagli d’un serpente…”
Improvvisamente riapparve. Raccontò d’essere prigioniera d’una madre vampira, d’un matrimonio al quale era destinata e dal quale non poteva sottrarsi, disse che non poteva compromettere la carriera, che sì, la voleva ma proprio non poteva… Pianse e Adriana ancora si lasciò espugnare…
Amarti - nient’altro voglio!
Renderti felice e finalmente
Esserti farfalla appuntata al petto
Come una medaglia, certo,
Un ciondolo, un ciottolo o una spilla
Come questo cuore
Che t’ho dato in pegno -
Tienilo, è tuo, non lo rivoglio indietro!
Ti fa più bella e rende me felice, più degna d’esserti
Fedele amante e amica.
Nuovamente il silenzio la inghiottì. Adriana allora venne meno alla promessa di non cercarla e scoprì che non esisteva alcun cascinale, in nessun conservatorio Costanza insegnava, su nessun cartellone spiccava il suo nome. Non comprese il perché di quelle menzogne, capì soltanto che probabilmente aveva bisogno di aiuto. Senza farle capire che aveva scoperto le sue bugie, le scrisse:
“Ti tengo la mano e non smetterò di farlo, perché così come non si può decidere di amare, nemmeno si può decidere di non amare più. (…) Non tacermi le tue verità. Non lasciarmi cadere nel vuoto - foglia morta che si stacca dal ramo in un eterno autunno in bianco e nero. (…) L’unica parola che possiedo la conosci - non ho che questo. Saprò capire, aspettare.”
Costanza era pazza ma non stupida. Lo show non poteva che volgere al termine. Riapparve e proseguendo le menzogne, forse mossa a compassione, per l’ultima volta si lasciò amare.
“La tenerezza ti vince
e posa me assai dolcemente
su un letto di spine.”
Perla di rugiada,
Gigante d’accerchiare -
Unghia nella carne,
Rosso lacrima il sudore;
Da qua ti prendo e venero -
Io non ti lascio andare!
Ma non si può trattenere chi non vuol fermarsi e Costanza tornò a negarsi. A niente servì telefonarle – le lettere rimasero senza risposta…
“Tu sei il mio piccolo fiore acuminato - ti porto appuntata sul petto, direttamente nella carne. (…) Come sembriamo veri quando amiamo e come lo siamo quando non amiamo più. (…) La verità t’infastidisce e offende ma, come me, ne hai bisogno più dell’aria che respiri. (…) Ti leggo come il palmo della mano aperta. (…) Tornerai, certo – ed io ti aspetto come i bambini aspettano il Natale, o la neve.”
Costanza le disse di smetterla, di stare al suo gioco o sparire. Si chiede all’altro di cambiare quando ci si è stancati di lui - ammissione di colpevolezza. Adriana non poteva fare né una cosa né l’altra. “Tu non t’accontenti del corpo, tu vuoi anche tutto il resto, incondizionatamente, e questo è diabolico!” - le scrisse - “Sono e dico quel che vedi: carne viva e questo cuore scalpitante sottratto alla protezione del suo torace – non posso permetterti di più.” - e la lasciò andare.
“Ora mi trovo qua, ferma a quest’ultimo scrittoio, con la nausea dello spreco e del parlare. Di tanto in tanto capisco quanto scioccamente conduco la mia vita. (…) Qua vivo e sono, nel corpo del mondo, puro spirito orfano d’amore. (…) Tu transiti in me la notte e il risveglio mi rende inconsolabile. (…) Hai messo i piedi su un frammento di deserto e tutt’intorno è esploso un giardino. (…) Un giorno ho incontrato il mio identico e contrario, ho conosciuto la bellezza – che colpa ne ho se non riesco a dimenticare? (…) Mi darò risposte che non leniranno la tristezza, mi racconterò una storia che non potrà piacermi e ingoiando pane e fiele, come se ne avessi bisogno, quantificherò lo spreco. (…) Piango, certo, perché sentirsi soli è un dolore che ti spacca dentro, che non si può ignorare o dimenticare, che lascia un segno profondo, incancellabile, una ferita che si riapre ogni volta che qualcuno si avvicina per offrirti, spesso non richiesta, quella rivincita che non ti darà il tempo di giocare. (…) Un giorno, forse, tornerò a sorridere con questa stessa voglia di amare ed essere amata - oggi, però, non mi sento di guardare così lontano.”
Non ne seppe più nulla sino a quando, un anno dopo, casualmente conobbe Imma.
Guardando fra i suoi libri scoprì che avevano gusti sorprendentemente affini - quanti titoli in comune! Imma le raccontò che le erano stati regalati da una donna con la quale aveva avuto uno storia difficile, tormentata. Adriana ne prese uno a caso e l’aprì, lesse la dedica e trasalì.
«Bella vero? Scriveva davvero bene… Leggi questa… Aspetta, ce n’è una anche qua…».
Adriana dovette sedersi: «Scusa se sono indiscreta, ma chi era questa donna, cosa faceva?»
«Era una persona disturbata, fingeva di essere una grande musicista, il violino, però, l’aveva studiato davvero… Ho provato ad aiutarla ma non c’è stato nulla da fare…»
Adriana la guardò, incredula: «Queste dediche sono frammenti delle mie lettere… E questo libro gliel’ho regalato io, è lo stesso perché manca la pagina che avevo dovuto strappare…»
Anche Imma crollò a sedere. Le raccontò che Costanza in quel periodo aveva enormi difficoltà economiche: nella condizione psichica nella quale si trovava, sebbene avesse potuto insegnare, non era in grado di farlo – viveva grazie alla generosità di chi l’amava o cercava di ammansirla. Le case delle quali parlava appartenevano al suo danaroso e forse ignaro compagno. Non riusciva nemmeno a guidare la macchina, per questo si spostava solo in treno o se accompagnata. Un giorno dovette portarla da una conoscente un po’ fastidiosa e insistente alla quale non aveva potuto dire di no. Avevano persino litigato per questo. Era una giornata piovosa e grigia. Allontanandosi, aveva visto nello specchietto retrovisore una figura avvolta nel suo cappotto, sotto un ombrello arcobaleno…
Mise un po’ di musica – era di Adriana anche quella.
«Sono venuta a vivere in questa casa solo perché c’era il caminetto, accenderlo mi faceva sentire più vicina a lei. Sognavo il giorno in cui ce ne saremmo state abbracciate sul tappeto, chiacchierando o ascoltandone il crepitio…».
Imma, alcolista senza averne coscienza, dopo il primo bicchiere di birra già straparlava di cose che Adriana conosceva benissimo e delle quali non sentiva alcuna necessità. Si strinse nelle spalle e dovette ammettere che anche se avesse voluto inventarsi una storia come quella non ci sarebbe riuscita.
«Si è fatto tardi», disse – e andando verso l’uscita pensò con sollievo che appena fuori avrebbe finalmente potuto camminare, da sola, in silenzio, sotto la pioggia... senza ombrello.

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