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Aggiornato Martedì 12-Nov-2013

 

 

Clarissa ciondolava sul nulla, nel brusio indistinto dei suoi pensieri. Seduta in cucina davanti al primo caffè della giornata, ne era avvolta, immersa. Aspirò una boccata di fumo, spense la sigaretta e come ridestandosi guardò l’orologio appeso sopra la porta. Era in ritardo. Non aveva più tempo per tentare di mettere ordine e comunque, anche ne avesse avuto, non avrebbe saputo da quale parte cominciare né, probabilmente, le sarebbe venuto in mente di farlo.

A dire il vero, la vita interiore di Clarissa era abitualmente ottenebrata da quel disordine a prima vista privo di costrutto. Se è vero che il luogo in cui si abita racconta chi siamo, la sua casa, da sola, bastava a descriverla o a descriverne almeno le apparenze.

Clarissa ammucchiava, tutto. I vestiti puliti su quelli sporchi e poi sopra ancora i puliti e così via. I piatti e le stoviglie nel lavandino ed ovunque, sino a non averne più. Libri, giornali e riviste in pile che le crescevano intorno. Sacchetti con la spesa che abbandonava dove le capitava, attingendovi secondo necessità senza mai avvertire il bisogno di riporre ciò che acquistava. Comprava e ricomprava le stesse cose perché non sapeva di averle già. Gli alimenti scadevano dimenticati sotto i nuovi - il cattivo odore talvolta era insopportabile, tanto da costringerla a raccogliere e buttare almeno la spazzatura.

Ma non era un’accumulatrice compulsiva come si potrebbe pensare. Non rovistava nei cassonetti, non raccoglieva le cianfrusaglie degli amici destinate alla discarica, non sperperava i suoi soldi acquistando tutto il possibile attraverso le televendite, i siti internet o in giro per negozi, semplicemente accatastava qualunque cosa e niente le importava davvero. Quando il caos giungeva ad un punto di non ritorno, incaricava un’impresa di sua fiducia che nel giro di qualche giorno rassettava l’appartamento. In quelle occasioni, si trasferiva in una pensione dall’altro lato della città. Tornava a casa solo quando il lavoro era finito e da subito, per cominciare evitando di svuotare la valigia, riprendeva ad ammucchiare.

Così i suoi pensieri. Ne produceva in continuazione, ammonticchiandoli uno sull’altro, sparpagliandoli alla rinfusa, dimenticandoli e poi rifacendoli da capo, ex novo. Non si soffermava, non approfondiva, raramente faceva domande e in ogni caso mai cercava, attendeva risposte.

Se fosse stato possibile sbirciare nella sua testa o entrare nella sua casa, nessuno l’avrebbe considerata normale, invece, se notata, era una persona che non destava alcuna preoccupazione o curiosità.

Lavorava presso un’agenzia di assicurazioni. Era un’impiegata sistematica, affidabile, e la sua scrivania, le sue pratiche, erano straordinariamente ordinate. Era sempre cordiale, disponibile, con i clienti e con i colleghi, tuttavia, chi la conosceva non ne aveva un’opinione vera e propria, comunque nulla che avesse consistenza, una qualche fondatezza. Semplicisticamente, esprimendo un giudizio affrettato e preconcetto, si sarebbe potuto dire che Clarissa fosse un orologio svizzero con gli ingranaggi sottosopra, le rotelle fuori posto, ma nessuno aveva abbastanza elementi per poterlo affermare, meno che mai pensare.

Uscita dal lavoro, talvolta andava a fare la spesa, qualche commissione, oppure si fermava a bere un caffè - sempre nei soliti posti, seguendo il medesimo tragitto, conversando del tempo, un fatto di cronaca, un programma TV, sempre con le stesse persone, sempre amabilmente. Poi inseriva la chiave nella serratura, due giri e, aprendo quel tanto che le bastava per insinuarsi, chiudeva il mondo fuori. Facendosi largo come poteva nel trambusto degli oggetti affastellati sul pavimento, raggiungeva la cucina, il bagno, la camera. Indossato il pigiama o una tuta logora, si buttava sul divano, mangiucchiava qualcosa di pronto ammucchiando confezioni e avanzi sui precedenti, sfogliava una rivista o guardava la TV, infine s’addormentava. Lo stesso susseguirsi di eventi, a pezzi, in pezzi, da decenni.

Si era spenta. Vi era stato un clic, o più precisamente una sequenza di clic - se avesse voluto, avrebbe potuto risentirne ancora il suono, avrebbe potuto collocare il proprio oscuramento emotivo in una porzione ben definita del tempo e dello spazio, ma non voleva.

Era stata una bambina sensibile, vivace e fiduciosa. Intorno ai sette anni, lei e la sua famiglia si erano trasferiti in un appartamento attiguo a quello di Fernando, un amico d’infanzia del padre. A poco a poco, questi divenne quasi un parente. Uno zio. Pranzava e cenava con loro, trascorreva le feste comandate e le ferie in loro compagnia, entrava e usciva dalla loro casa quando voleva. La bimba lo trovava simpatico. Lui era generoso con tutta la famiglia e in particolare con lei: la riempiva di attenzioni e regali, si offriva di prendersene cura se i genitori dovevano assentarsi. Quando nacque il piccolo Giuseppe e la loro attenzione si spostò completamente sull’erede maschio tanto atteso, Fernando poté finalmente assediare Clarissa, indisturbato, in un certo senso legittimato a farlo.

Gli abusi iniziarono un poco alla volta, dapprima coinvolgendola in giochi allusivi che lei non capiva ma ai quali, data la confidenza e la fisicità di Fernando, non riuscì a dare importanza, poi divennero sempre più pesanti, violenti e terrorizzanti. Cominciò a stuprarla quando aveva dieci anni. La persuase che se avesse confidato quello che era costretta a fare, nessuno l’avrebbe creduta, perdonata, sarebbe stata punita come si puniscono le bugiarde: abbandonandole, rinchiudendole in qualche riformatorio per svergognate. Lei non voleva più andare a casa sua, esservi lasciata da sola. Aveva pianto, si era impuntata, un giorno era addirittura scappata di casa, ma nulla - i suoi genitori, dando anche ascolto alle insinuazioni del caro zietto, si erano convinti che facesse i capricci per attirare l’attenzione, per gelosia verso il fratellino, e invece di chiederle cosa stesse succedendo, presero davvero a punirla, arrivando persino a minacciare di rinchiuderla in collegio se non si fosse comportata come fanno le bimbe perbene. Allora Clarissa si spaventò a morte e smise di opporsi. Di clic in clic, spense il cuore e il cervello - per sopravvivere.

A diciotto anni, fece fagotto e se ne andò. Non lasciò nemmeno un biglietto, non disse e non spiegò nulla. Guardò per l’ultima volta i suoi genitori inginocchiati sul tappeto che giocavano con suo fratello, e sparì. Nessuno la cercò mai e lei, quindi, non ebbe motivo di nascondersi. Si trasferì a mille chilometri di distanza solo per evitare il rischio di incontrarli casualmente - avrebbe preferito potervi aggiungere uno zero, ma alla fine si accontentò. Mille o diecimila non avrebbero fatto alcuna differenza: avrebbe in ogni caso evitato di entrare in intimità con qualunque essere umano, limitandosi a fare esclusivamente quello che doveva, ciò che le era chiesto, che era necessario per garantirle sussistenza e invisibilità. Così fu e nulla, nemmeno le reiterate richieste di perdono inviatele per posta dal morente Fernando, incrinarono la sua determinazione a non considerarsi esistente.

Fernando morì, sul serio, e lei ricevette in eredità una discreta somma di denaro e le mutandine che le strappò di dosso la prima volta che la stuprò. Un vero gentiluomo. Clarissa usò i soldi per aiutare una famiglia in difficoltà e bruciò il resto.

Una cascata, un tumulto di brandelli, pezzi, detriti, frantumi, schegge, cocci -  ognuno aveva in sé l’intero ma per vedere bisognava sapere cosa cercare.

Clarissa tentò di arrivare alla porta, ma la pila di libri franata la sera prima si frappose tra le sue intenzioni e il pavimento. Cadde rovinosamente e morì nel giro di pochi minuti, felice.

Dopo qualche giorno, il fetore del suo corpo in decomposizione richiamò l’attenzione del vicinato che chiese l’intervento delle autorità. La sua famiglia fu rintracciata grazie all’indirizzo trascritto su un vecchio diario di scuola custodito nel cassetto di uno scrittoio.

Mamma e papà non se la sentirono di affrontare un viaggio tanto lungo, così andò Giuseppe. Quando arrivò, il proprietario dell’appartamento lo stava aspettando, scuro in volto. Era preoccupato perché non voleva accollarsi i costi per rimetterlo a posto. “Sua sorella ne ha fatto un porcile, senza offesa...” - disse pentendosi subito del paragone.
“Vediamo...” - sospirò Giuseppe.

Appena furono all’interno dovettero tapparsi il naso. Per quanto le finestre fossero aperte ed una ditta specializzata avesse già pulito e disinfettato il corridoio dove Clarissa aveva abbandonato le sue spoglie mortali, il tanfo era ancora lì, forse intrappolato nella grande confusione che impediva il ricircolo dell’aria.

Giuseppe ebbe voglia di vomitare ma riuscì a trattenersi. Chiese dov’era il bagno e arrancando andò a sputare e sciacquarsi la bocca. Anche quello faceva schifo, ma non quanto la cucina. Non poteva credere ai suoi occhi. Adesso capiva perché sua madre e suo padre non avevano battuto ciglio quando Clarissa era scomparsa, capiva perché si fossero sentiti sollevati. Di sicuro era già pazza. Cercò di ricordarla, ma fece fatica - d’altronde, quasi non avevano avuto relazione. Lei non dava problemi, ma nemmeno comunicava. Tornava da scuola o chissà dove, immancabilmente si chiudeva in bagno per lavarsi, ossessivamente, mangiava senza alzare gli occhi dal piatto, sbrigava le faccende e poi si chiudeva in camera sua. Così ogni giorno, fin quando sparì.

“Senta, mi dia il tempo di organizzarmi. Le rifonderemo i danni, non tema.”
L’uomo annuì e gli porse l’agenda di Clarissa: “Tenga, ci sono numeri di telefono e altre cose, magari le saranno utili per sistemare le faccende di sua sorella. In fondo alla strada, un mio amico ha un alberghetto economico ma pulito, se crede può dirgli che la mando io, la tratterà bene. Queste sono le chiavi, questo è il mio biglietto da visita e questo è l’indirizzo della camera mortuaria. Faccia con calma, ma non troppo.”

Si strinsero la mano e Giuseppe restò solo. Fece spazio sul divano e si sedette. Aprì l’agenda e scorrendola trovò il numero di telefono dell’impresa che Clarissa chiamava una o due volte l’anno per farsi sistemare la casa. Vi trovò alcune buste paga e altri documenti che la riguardavano. Chiamò l’ufficio dove Clarissa aveva lavorato e scoprì che non sapevano della sua morte. Prese appuntamento per andare a ritirare i suoi effetti personali. Chiuse le persiane lasciando aperte le finestre, infilò l’agenda in valigia e uscì più in fretta che poteva.

Chiamò un taxi e raggiunse la camera mortuaria. Espletate le formalità, prese accordi con l’agenzia di pompe funebri consigliata dall’impiegato: cassa economica, cremazione, nessuna cerimonia e nessuna affissione. Le ceneri le avrebbe spedite a casa.

Chiamò un altro taxi, si fece portare all’alberghetto in fondo alla strada, prese una camera, si rinfrescò, noleggiò un’auto, mangiò una pizza, telefonò ai genitori rassicurandoli che andava tutto bene e sarebbe tornato presto, infine tornò in albergo. Gli dolevano i piedi e gli sembrava di avere un po’ di febbre. Si sdraiò per riposare qualche minuto ma s’addormentò, vestito.

Nei giorni seguenti, ottenuti i documenti necessari, andò in banca, chiuse il conto corrente di Clarissa spostando accrediti e addebiti sul proprio, quindi raggiunse l’agenzia di assicurazioni in cui Clarissa aveva lavorato quasi vent’anni. Furono tutti molto gentili, stupiti nel sapere che aveva un fratello, una famiglia, qualcuno era davvero affranto e si rammaricava di non averla conosciuta meglio. Il direttore della filiale la lodò lungamente di fronte agli impiegati, poi chiese ad una segretaria di accompagnare Giuseppe nell’ufficio di Clarissa e di aiutarlo con i suoi effetti personali. Entrambi rimasero costernati: a parte una piantina fiorita, non ve n’erano.

Giuseppe era confuso. Com’era possibile che vi fosse una tale differenza tra la donna apprezzata sul posto di lavoro e la donna che all’interno della sua casa aveva letteralmente seppellito se stessa vivendo come nemmeno un’animale potrebbe? Quale significato aveva tutto questo? Aprì la porta, pronto a combattere contro il fetore ma, stranamente, quasi non ve n’era traccia. Spalancò le finestre e cominciò a guardarsi intorno. Non sapeva cosa cercare, ma una risposta, seppur incerta, fragile, in qualche luogo doveva esservi.

Per prima cosa scoprì che, per quanto esagerato, esasperato, incontrollato, quello era soltanto disordine. Sì, vi era un po’ di spazzatura in giro, ma non più di quanta ve ne fosse in una casa qualsiasi - spazzatura sparpagliata che raccolta avrebbe occupato un bidone o due, al massimo. Decise di continuare ad osservare senza trarre conclusioni, senza aspettarsi di vedere ciò che il senso comune imponeva - ed ecco la seconda scoperta: ogni cosa, ogni oggetto, semplicemente non era riposto dove avrebbe dovuto. Se libri e riviste si fossero trovati sugli scaffali della libreria, nessuno vi avrebbe visto nulla di bizzarro, il fatto che fossero accatastati formando torri sghembe e malferme nei posti più improbabili rendeva la loro collocazione insolita, o inammissibile se invece dei libri si guardavano i vestiti, le stoviglie e il resto. Tutto, dunque, non era dove ci si sarebbe aspettati, dove per convenzione dovrebbe stare, quindi, nemmeno di disordine si poteva parlare, ma di un altro tipo di ordine, fatalmente destinato, in quanto difforme, a non essere compreso, gradito.

Giuseppe non poteva sapere che le sue astrazioni si adattavano perfettamente ai meccanismi mentali di sua sorella. I pensieri di Clarissa seguivano le medesime geometrie, avevano lo stesso imperscrutabile equilibrio, poco importava che non avesse alcuna necessità di prestarvi attenzione, mostrarli e organizzarli - come il vento arruffa le foglie e solleva la polvere, apparivano e fluivano dove volevano, nella sua mente e nel suo modo di esprimerli senza volontà e controllo.

“Cazzate.” - sussurrò - “Qui, comunque sia, è un disastro. Vi sarà almeno qualcosa che non debba finire in discarica?”

Si rimboccò le maniche e cominciò a rovistare. Dopo qualche ora concluse che non vi era nulla che avesse senso portare via. Non vi era niente di personale o di valore: né foto, né diari o quaderni, non vi erano soldi o gioielli, non vi erano mobili, suppellettili o capi di abbigliamento di qualità - tanto valeva contattare l’impresa e far portare via tutto. Telefonò e concordò lo sgombero per la settimana successiva, pagamento anticipato perché sarebbe partito prima.

Buttò l’agenda di Clarissa sul divano, chiuse tutto, lasciò le chiavi dell’appartamento all’albergatore e fatta la valigia si rimise in viaggio.

# # #

La titolare dell’impresa di pulizie non riusciva a trattenere le lacrime. Clarissa era sempre stata gentile, premurosa con lei. Un anno, quando il figlio più piccolo si era ammalato, Clarissa aveva provveduto alle spese mediche e donato alla sua famiglia una vacanza da sogno in montagna. Si erano divertiti tanto e Clarissa aveva chiamato ogni giorno per parlare con il piccolo. Anna non sapeva cosa si erano detti, ma al ritorno lui non era più arrabbiato, né spaventato - affrontò la malattia e la morte serenamente.

Rimase a lungo davanti alla porta. Le sembrava impossibile essere lì, da sola. Sapeva cosa avrebbe trovato e cosa doveva fare, ma le dispiaceva infinitamente dover eliminare per sempre la prova fisica della sua esistenza. Di Clarissa non sarebbe rimasto altro che il ricordo e domande alle quali non avrebbe più risposto. Perché non le aveva mai chiesto niente? Perché le aveva permesso di non lasciarla avvicinare? Perché si era accontentata? Perché aveva preso senza ricambiare? Si sentì tremendamente in colpa, tanto che per un attimo pensò di andarsene, rinunciare. Alla fine si fece coraggio, si consolò convincendosi che, se avesse potuto, Clarissa stessa le avrebbe affidato il compito di disfarsi di lei.

Le ci vollero tre giorni per raccogliere e inscatolare le sue cose. Quando ebbe terminato, sopraggiunse una squadra di operai che pulirono a fondo i mobili e l’ambiente. Il quinto giorno era tutto finito. Mai esistito. L’appartamento era pronto per essere affittato, nuovamente. Anna portò dei fiori, li mise in un vaso e li lasciò sul tavolo del tinello, infine chiuse la porta con due mandate e se andò.

# # #

Le ceneri di Clarissa arrivarono al camposanto. L’addetto le ripose in un loculo destinato ad esse, acquistato apposta e ben lontano dalla cappella di famiglia. Nessuno si preoccupò di personalizzare la lapide, così Clarissa non ebbe diritto ad essere riconosciuta e compianta neanche da morta.

Molti anni dopo, uno studente che svolgeva una ricerca sull’arte funeraria della zona, notò il loculo disadorno e se ne stupì: persino gli assassini avevano un nome e un cognome, perché non quelle spoglie? Sfogliando i registri del cimitero risalì all’identità di Clarissa, chiese in giro se qualcuno ne sapesse qualcosa, ma nulla - alla fine lasciò perdere e anche lui dimenticò.

Clic. Clic. Clic. Clic. Clic. Se ognuno di questi fosse stato un pallino nero scarabocchiato sulle righe di un pentagramma, avremmo almeno avuto un’elegia in musica. Invece, neppure questo - o forse sì, dodecafonia per uditori di un altro mondo.

 

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