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Aggiornato Martedì 12-Nov-2013

 

 

“Questa sera, ospite a TeleLettere, abbiamo la scrittrice Lucia Fittizi. Ecco una breve scheda biografica...”

Penelope (questo il nome d’arte che l’intervistatrice si era data), dovette attendere qualche secondo, poi, quando finalmente la luce rossa posta sopra la telecamera si spense, smise di sorridere, guardò in direzione dell’assistente di studio, gli fece cenno di avvicinarsi con l’ospite e corse ad aggiustarsi il trucco.

Lucia dovette sedersi su una pila di libri. “Sono veri?”, chiese.
“Verissimi.”, rispose l’assistente.
“E sono anche sicuri?” - l’uomo non capì - “Non è che nel bel mezzo dell’intervista crolla tutto ed io finisco gambe all’aria, vero?”
“Ma no, signora, stia tranquilla - sono incollati!”
“Ah, ecco.”, sussurrò Lucia, laconica, cercando di assumere una posizione che fosse il più naturale possibile, ma per quanto si sforzasse, se allungava le gambe per mettere giù i piedi, non poteva appoggiare la schiena, se appoggiava la schiena, le gambe rimanevano penzoloni. Decise allora di rinunciare alla comodità maledicendo gli scenografi.

Era una donna minuta e tonda, mani tozze per nulla curate, capelli corti brizzolati, occhi verdi e sguardo vispo. Aveva una sessantina d’anni, portati bene. Per l’occasione aveva acquistato un completo giacca/pantalone blu (perché lo scuro sfila e va sempre bene), una camicetta di seta bianca senza fronzoli e scarpe con i lacci, blu anch’esse.

“E sentiamo, cosa penseresti di metterti?”, le aveva chiesto Piera qualche giorno prima, cercando di non ridere.
“Jeans, la mia felpa preferita...”
“Ma sei matta? Mica vai nell’orto!”

Lucia, proprio non riusciva a sentirsi a proprio agio in niente che non fosse una delle sue tute o, al massimo, un paio di pantaloni sportivi. Quando vi era un matrimonio, un battesimo, un’occasione speciale, era sempre la stessa  storia: giorni di battaglie per riuscire a convincerla che doveva comprarsi qualcosa di adatto e per lei, adatto, era l’equivalente di un insulto, un’offesa personale. “Ma non lo vedi che sembro una bomboniera?” - diceva ogni volta che andavano per negozi, guardandosi allo specchio, senza preoccuparsi di nascondere il suo enorme disappunto, l’immensa irritazione. Piera, le aggiustava sulle spalle la giacca, la commessa ripiegava l’orlo dei pantaloni cercando di farli cadere morbidi lungo le gambe. Era tutto un via vai per trovare qualcosa da abbinare che le piacesse almeno un po’, ma nulla - alla fine, per porre termine a quella tortura, Lucia fingeva di rassegnarsi e Piera finalmente poteva decidere per lei. “Piantala, abbiamo comprato cose belle e ti stanno benissimo.” - tagliava corto Piera. Lucia doveva ammettere che sì, i capi erano di qualità, non avevano speso molto, ma che strazio, che ingiustizia! Si consolava pensando che non avrebbe più accettato inviti: se la gente non era disposta ad accettarla per quello che era, comunque si presentasse, tanto valeva restarsene a casa.

Piera guardava Lucia seduta in punta. Le fece una smorfia che più eloquente non si poteva e Lucia allargò le braccia prima indicando le gambe e poi toccando lo schienale. Piera rise.

Penelope arrivò trafelata e disse a Lucia di non avere avuto tempo di preparare una scaletta, quindi, vedendola perplessa la rassicurò: “Registriamo, se qualcosa va storto, tagliamo.”
“Ah, se tagliamo...” - sospirò passandosi una mano tra i capelli - “Pensa che ci vorrà molto?”
“Dipende dalla lunghezza delle sue risposte. Cerchi di essere concisa, andrà tutto bene.” - Penelope sorrise appoggiandole una mano sul ginocchio - “Iniziamo?” - Lucia annuì -  “Bene...” - Penelope fece segno che erano pronte, il cameraman si mise le cuffie e l’intervista cominciò.

“Grazie per aver accettato il nostro invito, Lucia. La prima domanda che, sono certa, la maggior parte dei suoi lettori le farebbe, è: che effetto le fa pubblicare oggi il suo primo libro?”
“Mi fa rabbia.”
“Rabbia?”
“Aspettare tutta la vita e poi, a sessant’anni, quando ci s’è messo il cuore in pace e s’ha solo voglia di star tranquilli, zac, qualcuno s’accorge che esisti. Non è bello.”
Piera sgranò gli occhi e si mise una mano tra i denti. Lucia la vide e fece una smorfia come a dirle che avrebbe cercato di contenersi. Penelope guardò verso la telecamera e, a beneficio del pubblico, precisò che Lucia era una donna franca e diretta, simpaticissima.
Soprattutto simpatica - grugnì Piera, ben sapendo che Lucia non avrebbe fatto nulla nemmeno per sembrarlo.
“E, ci dica, come è nato il suo libro e come ha fatto a pubblicarlo?”
Lucia pensò che non si dovrebbero mai fare due domande insieme, oltretutto le sembrò che nella seconda vi fosse un pizzico di malignità e la cosa non le piacque per nulla. “Beh, questo libro è nato come gli altri, scrivendolo a pezzi e bocconi perché se ci s’ha da mette’ insieme il pranzo con la cena, tempo per sta’ al computer ne rimane po’o. Non è nemmeno il mio preferito, a dirla tutta - a me piace scrive’ cose brevi, racconti via, ma pare che la gente non li apprezzi, preferisca roba lunga, compli’ata, impegnativa: romanzi. Visto che i racconti non c’era verso di falli piace’ a nessuno, ho cominciato a scrivene uno allungando il brodo più che potevo e allora un editore ha detto: bah, proviamoci.”
“In altre parole, fino ad oggi aveva avuto difficoltà ad incontrare un editore che le desse fiducia...”
“Oddio, a esse’ sincera non è che mi sia mai scapicollata a cercarne uno. Lo so anche da sola che mica sono la Yourcenar e che la mi’ roba non è per tutti. Però un fa’ piacere esse’ circondati di gente che pubblica quarsiasi ‘osa, anche ciofeghe tremende, e tu nulla, solo porte in faccia. Così alla fine mi so’ fatta convince’ e ho scritto lungo. Ha funzionato.”
“Cosa intende quando sostiene che i suoi scritti non sono per tutti?”
“Senta, se qualcuno v’ole consolazione, sensazionalismo o risate, con me casca male - un ce n’è di epifanie e catarsi, creda. Io scrivo quello che sento e vedo, descrivo la realtà, nuda e cruda, senza ricami. Racconto storie semplici, di gente normale - oddio, normale si fa per dire e anche ‘semplici’ è una parola grossa -, però, ecco, diciamo che non faccio sconti, non la butto sul sentimentale e il lieto fine, dato che nella vita al peggio non v’è limite, se un c’è un c’è, un lo invento, un ce lo metto a forza per acconteta’ il lettore. Forse per legge’ le mi’ ‘ose, ci v’ole stomaco - bisogna esse’ un tantino masochisti, disincantati, non so...”
“Uno stile secco, asciutto - fulminante. Potrebbe definirsi minimalista?”
“Beh, se per minimalista intende che son parca di parole, sì...”
“Dunque, il suo lettore ‘tipo’ chi è?”
“Siccome tutti s’è portati a immaginarci migliori di quel che siamo, di certo non uno che v’ole vede’ riflessa l’immagine che ha di sé. La gente, oggi, cerca conferme, v’ole legge’ quello che pensa scriverebbe lei, se sapesse farlo. V’ole di’: vedi? questo qua la pensa come me, pari pari, e allora c’ho ragione, son furbo, intelligente, so le cose e son nel giusto, c’ho pure fantasia! V’ole gloriarsi, pascersi sul lavoro altrui, senza sforzo, senza esser contraddetta. Non v’ole arrovellarsi, non v’ole che qualcuno la metta di fronte alle su’ miserie, alle su’ piccinerie. La gente v’ole riconoscersi in quel che legge, perciò, il mio lettore tipo è uno che non gira la faccia da un’artra parte quando vede qualcosa, soprattutto di se stesso, che non gli piace.”
“Nel suo libro ci sono molti personaggi: alcuni sono squallidi, altri sono malvagi per il gusto d’esserlo o per futili motivi, vi sono persone che potrebbero fare la differenza, se potessero e se volessero, ma non vi sono eroi, cavalieri senza macchia e senza paura. Le vicende si svolgono tra persone che occupano i posti più bassi della scala sociale ed altre che, pur vivendo ai piani superiori, non sono migliori di loro sebbene lo credano. Insomma, accadono molte cose attraverso le quali, soprattutto, mi pare che lei racconti questa avvilente uniformità - al ribasso...”
“Esattamente...”
“Non pensa che vi siano anche eccezioni che meritino di essere raccontate?”
Coda di paglia - pensò Lucia guardando la sua interlocutrice dritta negli occhi, chiedendosi cosa avesse parlato a fare sino a qual momento. “Lo so, il male fa notizia e il bene no. Allora?” - Lucia era seccata, si fece dritta sulla schiena, assunse un tono di voce che non ammetteva repliche e aggiunse: “Il male ha vinto, il male domina e determina gli eventi più di quanto possa farlo il bene. Si può fingere che non sia così? Le eccezioni confermano la regola, cara signora, se non facciamo i conti con le disastrose costanti che opprimono e governano i nostri comportamenti e le nostre aspirazioni, come possiamo superarle? Se il male diviene consuetudine, normalità, al punto da non riuscire più a distinguerlo, non vi è eccezione al mondo che possa essere presa ad esempio, alla quale si possa dare valore non solo in sé. Perlopiù a posteriori, ipocritamente, ci siamo occupati fin troppo delle eccezioni - è stato un buon modo per lasciare che qualcun altro ci riscattasse, facesse al posto nostro quello che ognuno di noi avrebbe dovuto e potuto fare. Le eccezioni non m’interessano, le lascio agli scrittori di successo e alle cattive coscienze.”

Ecco la zampata - pensò Piera. Per un tempo che parve interminabile, vi fu silenzio. Lucia si voltò verso di lei temendo un’espressione di riprovazione, ma Piera le fece un cenno di assenso con il capo e lei seppe di aver detto la cosa giusta, nel momento e nel modo giusto.

“Pausa!”, fu l’ordine che arrivò dalla regia. Tutti ne furono lieti. L’assistente portò una bottiglia di acqua fresca con tre bicchieri, Lucia si alzò per sgranchirsi le gambe, Piera si avvicinò e Penelope dovette complimentarsi: “Bella risposta. Certo, se riuscisse ad avere sempre il controllo della dizione come in questo caso, sarebbe perfetto...”
“Non ci speri,” - disse Piera - “succede solo quando è arrabbiata o deve dire qualcosa d’importante che non è disposta a ripetere due volte, il resto del tempo lo passa zitta o a bofonchiare.”

 

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