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«C’è
stato un colpo sordo alla porta qualche sera fa, come se qualcuno l’avesse
spinta nel tentativo di aprirla. Non mi spavento facilmente, ma l’altra
notte il cuore mi è schizzato in gola e per un tempo interminabile
ho trattenuto il respiro… Io e la mia gatta, feline entrambe, ce
ne stavamo immobili e zitte con lo sguardo arpionato al buio, pronte ad
attaccare per la paura… Che stranezza: non ho ancora capito se è
lei che somiglia a me o io a lei…»
«Equo scambio di pregi e difetti, suppongo.»
«Sì, è probabile.»
«Brrr, che freddo… Accendo la stufa…»
«Sai, prima d’incontrarla amavo parlare, discutere. Prima
che mi si capovolgesse la vita avevo ricominciato a suonare, comporre
– adesso è il deserto.»
«Fregatene e riprovaci.»
«Vorrei ma il pensiero che sia tutto inutile mi perseguita. Che
senso abbiamo se non siamo ascoltati, detestati o apprezzati, indifferentemente?
È come rivolgersi ad un branco di approfittatori: stanno lì,
davanti a te, solo perché in quel momento la sedia che hanno occupato
è diventa abbastanza calda per scaldargli il culo – tutto
il resto non conta, dettagli che messi insieme non fanno uno sbadiglio!
Ciò che non esiste non preoccupa, non impegna, non lo si deve sostenere,
ricordare. Di sedie ne è pieno il mondo, di approfittatori pure
– uno per ogni sedia!»
«È vero, ma non è soltanto così.»
«Mia cara, quell’1% di individui ai quali ricorriamo per non
sentirci completamente idioti a volte non basta per cambiare opinione,
per quanto arbitraria ed emotiva possa essere, né il restante,
vergognoso 99% di esistenze brulicanti! Perdonami, sono davvero di pessimo
umore…»
«Non essere sciocca, ti capisco e in parte condivido, ma stasera
non me la sento di fare la guerra al mondo – fa troppo freddo e
poi ho avuto una giornata terribile, sono sfinita. Quanto zucchero?»
«Due, grazie. Quant’è che abiti qui?»
«Quindici anni. Quindici lunghissimi, logoratissimi anni –
quasi una galera… E tu ti mangi le unghie sempre in questo modo?»
«No, avevo persino smesso, ma non attraverso un periodo felice e
questo ne è il risultato…»
«???»
«Le si è freddato il culo, ecco tutto. E questa sarebbe una
ragione sufficiente per mandarla al diavolo ma non lo farò –
dopo di lei non so immaginare altro. Sto solo cercando di salvare il bel
sogno che abbiamo inventato. In un certo senso è davvero la fine.
È finita un’epoca, un tempo. Ogni attimo che passa ci avvicina
sempre di più alla detestabile, incontrovertibile soglia del monotono
trascorrere senza mutamenti rilevanti, là dove il riflesso di luci
lontane rischiara appena il torpore rendendoci a noi stessi per quello
che siamo: fatti a immagine e somiglianza di Dio – lo sfacelo. È
il tic-tac dell’orologio che comincia a respirare il nostro stesso
respiro, cosicché in noi s’incarna, il lui c’incarniamo,
stupidamente, allegramente – come una strada interrotta sul vuoto.
“Dopo morti si diventa il tempo che abbiamo perduto”, ma non
ricordo chi l’ha detto.»
«Sbiadiscono le belle voci che sapevano incantarci… Mia cara,
questo è il tempo, questa è la nostra stanchezza –
la stanchezza del tempo. Forse alcuni nascono già morti, forse
non nascono affatto, pare soltanto. Destino? Castigo? Crudeltà
pura di un Dio furente, bizzoso e irragionevole, vendicativo? Chi lo sa…»
«Un meccanismo difettoso, ecco cosa vedo. Non ci è concessa
altra possibilità di viverci se non attraverso ciò che ci
viene dato o tolto. Il possesso, la permanenza – utopie adolescenziali,
l’errata corrige lasciata in bianco nel manuale del perfetto imbecille.»
«Una sedia per ognuno di noi – tu l’hai detto.»
«Dico anche che è tardi, il danno è fatto. Vedere
è stata la rovina del veggente, vedere è la rovina di tutta
una stirpe che muore portandosi appresso il suo stesso significato, la
sua ragion d’essere. Non ha senso parlarne, fa soltanto male –
ed io, ormai, vedo solo difetti e differenze. Invecchio.»
«Che stupidaggine – le differenze ci sono, sempre. Prendiamone
atto e voltiamo pagina.»
«Le differenze… Un abisso incolmabile – chiediamolo
agli amanti. Fra essi talvolta c’è amore ma anche istinto
omicida, suicida…»
«Dove le differenze c’innamorano si crea l’unica alternativa
alla menzogna d’esistere, alle finzioni, ed è subito gioia
e dolore, morte e rinascita – comunque coscienza e mutamento.»
«Sempre avanti, sì, come una strada interrotta sul vuoto…»
«Puoi scegliere se fermarti, tornare indietro o proseguire –
ma se non ti butti non potrai mai sapere se sei in grado di volare. Movimento,
soltanto questo conta. Chi lo desidera o ne ha necessità, si faccia
pure soffocare dai rimpianti, dai rimorsi – io non ne ho. Ogni morte
mi purifica, cosicché sempre torno a nuova vita – non mi
spaventa ricominciare. Questo è il prezzo del movimento. Movimento
è sofferenza e serenità nella sofferenza. Movimento è
assumersi le proprie responsabilità, è rinunziare alla delega,
è opporsi al potere. È così dolce il dolore quando
è coscienza e libero arbitrio.»
«Tu parli di un movimento che è soprattutto interiore –
passivo, dunque. Un’agitazione che dall’esterno è difficile
intuire, supporre. Un perpetuo infrangersi silenzioso destinato alla comprensione
delle onde, non della moltitudine. Soltanto chi vive questo stato d’animo
sa di cosa parli e là, a ridosso degli scogli, certamente vi riconoscete,
certamente vi basta un cenno o molto meno – a tutti gli altri non
rimane che lo stupore, l’ottusa brevità di un “non
capisco”.»
«Le differenze ci sono, sono reali, ma non possiamo affermare che
sia un male. Sappiamo che non c’è perfezione e quindi non
abbiamo ragione di pretenderla – perché crucciarsene?»
«Già, tu hai trovato il tuo equilibrio…»
«Ah, l’equilibrio – quanto di più instabile e
temporaneo io conosca! Le certezze di adesso domani saranno i miei dubbi
– funziona così, da anni. Ma ho imparato a convivere con
le mie nevrosi, con le mie inquietudini ed isterie, è stato abbastanza
facile farlo – era necessario. Purtroppo è la schizofrenia
del mondo che mi preoccupa, che m’infastidisce e continua a darmi
problemi… Dal lattaio al pokerino con gli amici, nella stragrande
maggioranza dei casi è un vero disastro… Ma adesso basta
con questi pensieri – troppo complicati per parlarne seriamente...
Hai fame?»
«No.»
«Hai pranzato?»
«No.»
«Prima o poi dovrai pur mangiare, non ti sembra?»
«Uhm…»
«Dove alloggi?»
«Ho prenotato una camera in un alberghetto appena fuori dal centro.»
«Beh, disdici e considerati mia ospite. In quanto alla cena spero
che ti accontenterai di un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino
perché il menù stasera non offre altro!»
«Non ti disturbare, davvero…»
«Lascia stare. Lo sai che faccio solo quello che mi va.»
«Incredibile – non sei affatto cambiata…»
«Altroché se lo sono!»
«Ti ricordi?»
«Certo…»
Le
due donne tornarono indietro con la memoria. Anni Sessanta e Settanta.
L’Università, il teatro, l’impegno politico –
le residue ambizioni e utopie di una generazione ribelle, talvolta confusa,
attratta dalla lotta armata, dai deliri degli opposti estremismi, comunque
destinata alla sconfitta. Poi gli anni Ottanta – quelli del disincanto
e della resa nel tentativo faticoso di sopravvivere, adeguarsi, scrivere
un pezzo di storia – almeno la propria. Infine gli anni Novanta,
la solitudine, l’amarezza e il disincanto, inseguendo amori di carta,
costrette in un corpo che avvizzisce e cigola a dispetto del cuore che
torna o vorrebbe tornare fanciullo.
Giulia
e Andrea, avevano ormai maturato una per l’altra tutto l’affetto
e la stima che erano necessari per capirsi senza fatica o delusione. Un
sentimento forte, cresciuto nel tempo, maturato nella lontananza, nel
disagio e nello stupore di sapersi simili. Erano pronte per riceversi
senza equivoci o reticenze. Ad un solo sguardo o molto meno, si sarebbero
riconosciute, trovate...
Rimasero
in silenzio a lungo ma sembrava che cantassero e quel canto, da allora,
mai più s’interruppe.
Sebbene
incredibile, il tempo non le ha cambiate: ancora impallidiscono, ed io
con loro, di fronte al gran mistero che è amare.

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