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Aggiornato Sabato 24-Nov-2012

 

«C’è stato un colpo sordo alla porta qualche sera fa, come se qualcuno l’avesse spinta nel tentativo di aprirla. Non mi spavento facilmente, ma l’altra notte il cuore mi è schizzato in gola e per un tempo interminabile ho trattenuto il respiro… Io e la mia gatta, feline entrambe, ce ne stavamo immobili e zitte con lo sguardo arpionato al buio, pronte ad attaccare per la paura… Che stranezza: non ho ancora capito se è lei che somiglia a me o io a lei…»
«Equo scambio di pregi e difetti, suppongo.»
«Sì, è probabile.»
«Brrr, che freddo… Accendo la stufa…»
«Sai, prima d’incontrarla amavo parlare, discutere. Prima che mi si capovolgesse la vita avevo ricominciato a suonare, comporre – adesso è il deserto.»
«Fregatene e riprovaci.»
«Vorrei ma il pensiero che sia tutto inutile mi perseguita. Che senso abbiamo se non siamo ascoltati, detestati o apprezzati, indifferentemente? È come rivolgersi ad un branco di approfittatori: stanno lì, davanti a te, solo perché in quel momento la sedia che hanno occupato è diventa abbastanza calda per scaldargli il culo – tutto il resto non conta, dettagli che messi insieme non fanno uno sbadiglio! Ciò che non esiste non preoccupa, non impegna, non lo si deve sostenere, ricordare. Di sedie ne è pieno il mondo, di approfittatori pure – uno per ogni sedia!»
«È vero, ma non è soltanto così.»
«Mia cara, quell’1% di individui ai quali ricorriamo per non sentirci completamente idioti a volte non basta per cambiare opinione, per quanto arbitraria ed emotiva possa essere, né il restante, vergognoso 99% di esistenze brulicanti! Perdonami, sono davvero di pessimo umore…»
«Non essere sciocca, ti capisco e in parte condivido, ma stasera non me la sento di fare la guerra al mondo – fa troppo freddo e poi ho avuto una giornata terribile, sono sfinita. Quanto zucchero?»
«Due, grazie. Quant’è che abiti qui?»
«Quindici anni. Quindici lunghissimi, logoratissimi anni – quasi una galera… E tu ti mangi le unghie sempre in questo modo?»
«No, avevo persino smesso, ma non attraverso un periodo felice e questo ne è il risultato…»
«???»
«Le si è freddato il culo, ecco tutto. E questa sarebbe una ragione sufficiente per mandarla al diavolo ma non lo farò – dopo di lei non so immaginare altro. Sto solo cercando di salvare il bel sogno che abbiamo inventato. In un certo senso è davvero la fine. È finita un’epoca, un tempo. Ogni attimo che passa ci avvicina sempre di più alla detestabile, incontrovertibile soglia del monotono trascorrere senza mutamenti rilevanti, là dove il riflesso di luci lontane rischiara appena il torpore rendendoci a noi stessi per quello che siamo: fatti a immagine e somiglianza di Dio – lo sfacelo. È il tic-tac dell’orologio che comincia a respirare il nostro stesso respiro, cosicché in noi s’incarna, il lui c’incarniamo, stupidamente, allegramente – come una strada interrotta sul vuoto. “Dopo morti si diventa il tempo che abbiamo perduto”, ma non ricordo chi l’ha detto.»
«Sbiadiscono le belle voci che sapevano incantarci… Mia cara, questo è il tempo, questa è la nostra stanchezza – la stanchezza del tempo. Forse alcuni nascono già morti, forse non nascono affatto, pare soltanto. Destino? Castigo? Crudeltà pura di un Dio furente, bizzoso e irragionevole, vendicativo? Chi lo sa…»
«Un meccanismo difettoso, ecco cosa vedo. Non ci è concessa altra possibilità di viverci se non attraverso ciò che ci viene dato o tolto. Il possesso, la permanenza – utopie adolescenziali, l’errata corrige lasciata in bianco nel manuale del perfetto imbecille.»
«Una sedia per ognuno di noi – tu l’hai detto.»
«Dico anche che è tardi, il danno è fatto. Vedere è stata la rovina del veggente, vedere è la rovina di tutta una stirpe che muore portandosi appresso il suo stesso significato, la sua ragion d’essere. Non ha senso parlarne, fa soltanto male – ed io, ormai, vedo solo difetti e differenze. Invecchio.»
«Che stupidaggine – le differenze ci sono, sempre. Prendiamone atto e voltiamo pagina.»
«Le differenze… Un abisso incolmabile – chiediamolo agli amanti. Fra essi talvolta c’è amore ma anche istinto omicida, suicida…»
«Dove le differenze c’innamorano si crea l’unica alternativa alla menzogna d’esistere, alle finzioni, ed è subito gioia e dolore, morte e rinascita – comunque coscienza e mutamento.»
«Sempre avanti, sì, come una strada interrotta sul vuoto…»
«Puoi scegliere se fermarti, tornare indietro o proseguire – ma se non ti butti non potrai mai sapere se sei in grado di volare. Movimento, soltanto questo conta. Chi lo desidera o ne ha necessità, si faccia pure soffocare dai rimpianti, dai rimorsi – io non ne ho. Ogni morte mi purifica, cosicché sempre torno a nuova vita – non mi spaventa ricominciare. Questo è il prezzo del movimento. Movimento è sofferenza e serenità nella sofferenza. Movimento è assumersi le proprie responsabilità, è rinunziare alla delega, è opporsi al potere. È così dolce il dolore quando è coscienza e libero arbitrio.»
«Tu parli di un movimento che è soprattutto interiore – passivo, dunque. Un’agitazione che dall’esterno è difficile intuire, supporre. Un perpetuo infrangersi silenzioso destinato alla comprensione delle onde, non della moltitudine. Soltanto chi vive questo stato d’animo sa di cosa parli e là, a ridosso degli scogli, certamente vi riconoscete, certamente vi basta un cenno o molto meno – a tutti gli altri non rimane che lo stupore, l’ottusa brevità di un “non capisco”.»
«Le differenze ci sono, sono reali, ma non possiamo affermare che sia un male. Sappiamo che non c’è perfezione e quindi non abbiamo ragione di pretenderla – perché crucciarsene?»
«Già, tu hai trovato il tuo equilibrio…»
«Ah, l’equilibrio – quanto di più instabile e temporaneo io conosca! Le certezze di adesso domani saranno i miei dubbi – funziona così, da anni. Ma ho imparato a convivere con le mie nevrosi, con le mie inquietudini ed isterie, è stato abbastanza facile farlo – era necessario. Purtroppo è la schizofrenia del mondo che mi preoccupa, che m’infastidisce e continua a darmi problemi… Dal lattaio al pokerino con gli amici, nella stragrande maggioranza dei casi è un vero disastro… Ma adesso basta con questi pensieri – troppo complicati per parlarne seriamente... Hai fame?»
«No.»
«Hai pranzato?»
«No.»
«Prima o poi dovrai pur mangiare, non ti sembra?»
«Uhm…»
«Dove alloggi?»
«Ho prenotato una camera in un alberghetto appena fuori dal centro.»
«Beh, disdici e considerati mia ospite. In quanto alla cena spero che ti accontenterai di un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino perché il menù stasera non offre altro!»
«Non ti disturbare, davvero…»
«Lascia stare. Lo sai che faccio solo quello che mi va.»
«Incredibile – non sei affatto cambiata…»
«Altroché se lo sono!»
«Ti ricordi?»
«Certo…»

Le due donne tornarono indietro con la memoria. Anni Sessanta e Settanta. L’Università, il teatro, l’impegno politico – le residue ambizioni e utopie di una generazione ribelle, talvolta confusa, attratta dalla lotta armata, dai deliri degli opposti estremismi, comunque destinata alla sconfitta. Poi gli anni Ottanta – quelli del disincanto e della resa nel tentativo faticoso di sopravvivere, adeguarsi, scrivere un pezzo di storia – almeno la propria. Infine gli anni Novanta, la solitudine, l’amarezza e il disincanto, inseguendo amori di carta, costrette in un corpo che avvizzisce e cigola a dispetto del cuore che torna o vorrebbe tornare fanciullo.

Giulia e Andrea, avevano ormai maturato una per l’altra tutto l’affetto e la stima che erano necessari per capirsi senza fatica o delusione. Un sentimento forte, cresciuto nel tempo, maturato nella lontananza, nel disagio e nello stupore di sapersi simili. Erano pronte per riceversi senza equivoci o reticenze. Ad un solo sguardo o molto meno, si sarebbero riconosciute, trovate...

Rimasero in silenzio a lungo ma sembrava che cantassero e quel canto, da allora, mai più s’interruppe.

Sebbene incredibile, il tempo non le ha cambiate: ancora impallidiscono, ed io con loro, di fronte al gran mistero che è amare.

 

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