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Aggiornato
Sabato 22-Set-2007
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Da mesi Ersilia era in ospedale costretta in una inattività indesiderata che ne acuiva sempre di più le sofferenze. Avvolta in una fitta ragnatela di tubicini trasparenti, circondata da sacche ricolme di liquidi nutrivi cristallini o maleodoranti umori direttamente provenienti dalle sue viscere inermi, guardava con sgomento il corpo scarnificarsi. Impotente assisteva a quel lento, inarrestabile disfacimento ed ogni occasione era buona per lamentarsi, discutere, imprecare: accusava i suoi familiari di trascurarla colpevolmente, malediva le infermiere, i medici e chiunque dimostrasse poca solerzia, interesse o attenzione per i suoi irrisori bisogni. Di fatto non sapeva rassegnarsi alla progressiva perdita d’autorità e autonomia. Perché si ostinassero a tenerla in vita non riusciva a capirlo. Sapeva solo che qualcosa aveva smesso di funzionare proprio come accade ad un vecchio ingranaggio logorato dal tempo e dal gran uso che se n’è fatto. Tutto quel darsi da fare per convincerla che presto sarebbe tornata a casa la offendeva – avrebbe preferito sentirsi dire la verità piuttosto che essere trattata come una bizzosa, inacidita o, peggio, sclerotica vecchiaccia. Se avessero avuto maggior rispetto della sua persona, forse avrebbe accettato l’umiliazione di non poter badare a se stessa, forse avrebbe persino sopportato in silenzio le inutili torture fisiche e morali alle quali la sottoponevano ogni giorno – invece niente, nessun riguardo e nemmeno un briciolo di comprensione. Sessantotto, ecco quello che era diventata: un numero, null’altro che un numero in cima ad una cartella clinica – un fastidio, una seccatura, un’inservibile carcassa senza dignità né storia. Le giornate di Ersilia erano tutte uguali: alle sei, mentre ancora dormiva, le facevano il primo prelievo di sangue e poi tre brucianti iniezioni, quindi, quando ormai era definitivamente sveglia e dolorante per il trattamento subito, un bel buco nel dito per controllare la glicemia, la misurazione della pressione, della temperatura, dei liquidi drenati, se necessario la sostituzione delle sacche, la quotidiana medicazione delle piaghe da decubito, il lavaggio e la profumazione con acqua di colonia, il cambio della biancheria intima, della camicia da notte e delle lenzuola. Tutto cominciava con l’irruzione improvvisa e rumorosa dell’infermiera addetta alle terapie e terminava un’ora dopo con la distribuzione delle colazioni. Solo allora Ersilia poteva chiudere gli occhi per non vedere le altre degenti mangiare, alzarsi e andare al bagno da sole. Alle nove, Giovanna, l’infermiera professionale che si occupava dell’assistenza notturna, se ne andava lasciando il posto alla nuora, al figlio o al marito verso i quali, Ersilia, aveva maturato un risentimento evidente, in parte giustificato. Era sempre stata una donna energica, esigente, volitiva. Le avversità e le delusioni che aveva vissuto anziché addolcirne il temperamento, con il passar degli anni l’avevano resa addirittura dispotica. Non aveva mai sopportato la mancanza di carattere, eppure, chissà perché, aveva sposato un uomo che ne era quasi totalmente privo e da lui aveva avuto un unico figlio che ne era divenuto il ritratto vivente, ma la cosa veramente buffa è che la storia si era ripetuta: Mauro aveva sposato una donna del tutto simile a lui e insieme avevano generato un clone! Un flagello del quale pareva rendersene conto solo lei, cosicché, per evitare che quegli smidollati si rovinassero con le loro stesse mani, aveva preso il controllo della famiglia instaurando una vera e propria dittatura matriarcale. «Di quattro non se ne fa uno!», ripeteva rassegnata sentendosi addosso tutto il peso dei suoi settantacinque anni: a cos’era servito prendersi cura di quelle pappe molli se adesso non erano nemmeno capaci di girarla su un fianco, se non sentivano il bisogno di proteggerla dalle infermiere e dai medici? A cos’era servito risparmiargli la fatica di pensare e provvedere alle necessità della vita se ora la ripagavano lasciandola in balia di quel branco di macellai ai quali non poteva importare un fico secco della sua persona? Possibile che lei, proprio lei, avesse sbagliato qualcosa? O non era piuttosto che gli erano toccati in sorte quattro cronici smidollati? Ma le sue non erano domande, erano semplici constatazioni alla fine delle quali diveniva, se possibile, ancor più intrattabile e intransigente... «Dorino» - intimava al marito che era un po’ sordo e il più delle volte non riusciva a sentirla - «tirami su!», ma lui rimaneva lì, con lo sguardo perso, assente, e allora si vendicava umiliandolo, infierendo contro il suo handicap senza pietà. «Lidia, visto che sei tanto indaffarata nelle tue faccende e quando sei qui non hai nulla da dirmi, potresti anche startene a casa...», suggeriva a sua nuora con malignità e acredine nel tentativo di farle venire dei sensi di colpa dai quali, comunque, pareva essere immune. «Vedi,
Mauro, a voi non importa nulla di me, ammettetelo. Lidia viene in ospedale
per leggere quelle sciocche riviste, tuo padre capisce fischi per fiaschi
– cascassi in terra neanche se ne accorgerebbero! Ma che ci vengono
a fare qua? In quanto a te, invece di star dietro ai dottori, te ne vai
in sala d’aspetto a fumare... Che devo fare, dimmelo – non
posso continuare a pagare Giovanna all’infinito, quella ogni volta
che viene prende centocinquanta fogli da mille, mica discorsi! E per fortuna
che c’è lei – hai visto come mi trattano le infermiere?
Le chiamo e non vengono; quando vengono, magari perché ho bisogno
della padella, me la mettono e poi se la dimenticano; il sacchetto del
drenaggio perde ma per loro è tutto a posto, nemmeno lo guardano
ed io mi sporco tutta con quella robaccia, è una settimana che
mi hanno fatto questo buco nel collo e ancora non me l’hanno medicato;
si ostinano a spaccarmi le vene delle braccia, prendono sangue, iniettano
roba, io chiedo a che serve ma non me lo dicono – insomma, Mauro,
possibile che nessuno di voi capisca?» - e lui: «Se vuoi venir
via presto, mamma, devi portar pazienza. Quello che ti fanno serve per
farti star meglio. Bisogna che tu sia più comprensiva con le infermiere
perché non possono starti dietro tutto il giorno, ci sono anche
gli altri pazienti e poi sono poche, non possono far tutto...» Ersilia aveva ragione a preoccuparsi, la stavano trascurando davvero e questo accadeva sempre con i degenti di vecchia data, quelli anziani che forse non sarebbero sopravvissuti – da soli o quasi. Sì, suo figlio avrebbe fatto meglio ad arrabbiarsi con la capo sala e con il primario, avrebbe fatto meglio a pretendere il fisioterapista e tutto il resto, ma non era il tipo che alzava la voce, né pensava che occorresse farlo...
«E poi, che significa quel marchingegno, che c’è lì
dentro, cosa stanno sperimentando?» – ad Ersilia non glielo
levava nessuno dalla testa che non era per zelo o spirito umanitario che
l’avevano attaccata a quella strana macchina dispensatrice d’un
misterioso liquido lattiginoso... Alla fine, Mauro doveva arrendersi. Tutto quel balbettare stupidaggini avrebbe irritato chiunque, figuriamoci sua madre. Così, come al solito, dopo ogni battibecco si mostravano offesi, ostentavano indifferenza uno per l’altra. Mauro si metteva a leggere il giornale o andava a fumare. Ersilia, nonostante la rabbia, la paura e lo scoramento, rimaneva in silenzio, senza piangere, assorbita nei suoi pensieri, guardando fuori dalla finestra il tiepido sole d’autunno far capolino da dietro le fronde di un albero. Guardava spesso in quella direzione, guardava l’azzurro intenso del cielo senza riuscire a darsi pace. Da quel letto aveva visto l’estate andarsene, le foglie colorarsi e cadere. Aveva visto la pioggia, il vento ed ogni giorno un’alba ed un tramonto diverso. Le avevano dormito accanto altre donne, dapprima sofferenti, poi finalmente liete. Le aveva viste arrivare, ne aveva ascoltato i lamenti, infine le aveva guardate riporre nei loro borsoni gli effetti personali, le aveva sentite giurare che sarebbero tornate a trovarla ma sapeva che non era vero, che mentivano. Nessuno si volta per guardare in faccia una malattia o la morte – è giusto e naturale che sia così, l’avrebbe fatto anche lei se fosse stata al posto loro. Una lunga degenza è fatta di gesti e avvenimenti semplici, ritualizzati, meccanici, infinite volte ripetuti, sempre eguali. Ersilia pensava a quei freddi, immobili sacchi di plastica blu – ne aveva visti portare via tanti e tutti erano passati davanti alla sua stanza. Pensava alle infermiere, ai loro visi chini sulle sue braccia martoriate, sul suo ventre violato. Quelle donne indaffarate agivano maldestre, frettolose, distratte – procuravano lacerazioni che la carne avrebbe sopportato e il tempo guarito. Solo l’opera del chirurgo sarebbe rimasta scolpita nelle viscere, traccia invisibile e incancellabile del suo passaggio, del suo potere, della sua colpevole, volontaria indifferenza. I pensieri si sovrapposero alle voci dei visitatori. Era l’ora del passo, l’ora dei fiori e dei biscotti... Si sentiva stanca, Ersilia, tutto quel sali e scendi dalla padella l’aveva sfinita. Avrebbe voluto riposare, ma con quel baccano... «Che brutta fine...» - pensò guardando suo marito, suo figlio, sua nuora e suo nipote impegnati in una conversazione con i parenti di un’anziana signora arrivata da poco - «...finire così, in un letto d’ospedale...», poi, senza rendersene conto, chiuse gli occhi e smise di soffrire.
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