È
triste la sera con le voci nelle case, i passi ridondanti nel tepore buio
della notte. È triste e cupa, malinconica, assente.
Ho
colto per te il più bel fiore del mio giardino, l’ho messo
in un calice di cristallo, vi ho versato un poco del mio sangue e ho atteso
che cambiasse colore. È morto del mio stupore, della tua cecità,
della nostra idiozia – non si piangono i fiori.
Perdonami
se non ti narrerò le mie disgrazie… Ho imparato che è
affar mio questo dolore, che c’è di peggio, che sono sciagurata
e fortunata al tempo stesso. Ho imparato persino a sorridere, cosicché,
adesso, ho il volto coperto dai segni del tempo e mi lascio avvilire dal
male profondo che è vivere e già un po’ morire.
È
triste il mio cielo con le sue grandi luci che corrono nella notte senza
trovar risonanze. Nel mio cielo non ci sono pareti di pietra contro le
quali far rimbalzare la voce o il pensiero. Il mio cielo è il mio
mare, è questo batter d’ali al vento fra mille altre che
han perso le piume nella fretta di crescere, di lasciarsi alle spalle
i pallettoni del bracconiere.
Preferisco
andarmene piuttosto che rimanere così – a metà tra
quello che potrei essere e quello che in realtà sono.
D’accordo,
capita a molti eppure non si lamentano – e allora perdonatemi tutti
se ho smesso di cantare allegramente, ma è capitato spesso che
abbia provato un tale sgomento e disgusto di fronte allo spreco, che poi
ho preferito scegliere fra i mali quello che a me sembrava essere il minore:
piegarmi docilmente, annullarmi in un microcosmo muto, incolore. Ho sbagliato,
lo ammetto, la colpa è tutta mia – ma sono stata giovane
e sciocca, non potevo sapere che in questo modo ci si consuma e spenge
lentamente, come una candela.
Ora
ho capito che non si muore volentieri se si ha fame, o sete, o freddo.
Morire dev’essere bello solo se lo spirito è sazio, quando
la carne non ha più bisogno di sé.
Amore
mio, di tutto questo a te che importa? Cosa t’importa se ho preso
la mia coperta, se ho messo nella sacca un pezzo di formaggio e un po’
di pane, se ho riempito d’acqua fresca la borraccia. Che t’importa
della spiaggia e del mare che mi aspetta. Tu sei altrove, assorbito in
altri e ben più inutili sprechi – che senso ha che ti racconti
il mio cuore adesso, ora che ho trovato la mia strada, il modo d’essermi
fedele senza farmi male?
*
* *
Ho
camminato a lungo, sai? Era quasi il tramonto e sentivo crescere in me
il desiderio struggente di ammirare ancora quel sole, di contemplarlo
come già altre volte ho fatto senza gioia né consapevolezza.
Ho sentito un insopprimibile bisogno di abbandonarmi ad esso, di farne
parte – e allora mi sono stesa sulla sabbia, l’ho guardato
senza stancarmi. Per imprimerlo nella memoria me ne sono nutrita sino
ad esserne ubriaca, poi ho atteso l’alba per poterla portare con
me, nei miei occhi, ovunque stessi andando.
Ho
riempito la mia vita di falsi silenzi. Ho stretto i denti. Ho chiuso i
pugni. Mi sono data mille volte e mille volte m’è mancata
l’aria, mille volte mi hanno soffocata senza capire che avevo bisogno
solo di un po’ d’ossigeno, per non morire…
Il
sole si basta, arde per sé. La luna è un’altra cosa
– par che risplenda di luce propria, ma non è vero. Non c’è
conflitto quando c’è ignoranza, quando non c’è
contatto, coscienza.
Ho
lasciato che il niente riempisse i miei giorni, ma la mia morte sarà
una danza attraverso la quale saprò riscattarmi. Questa vita ha
smesso d’opprimermi. Adesso sono il sogno che non ho voluto vivere
– sono l’aria che non ho potuto respirare…
E
tu non disperarti domani quando non ti carezzerò più le
palpebre, quando non cullerò più i tuoi vizi – altrove
un mondo intero di donne non aspetta altri che te per sacrificare a Dio
il loro bel ventre e quel piccolo vuoto che sono.
Io
non ho più tempo, non so più mentire e questo mare è
davvero il mio cielo – quel cielo che tu non puoi nemmeno tentare
d’immaginare.
Anne
Cecile

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