Giancarlo aveva finito il suo turno. Era sfinito. Non ne poteva più di quella vita: delle slave, delle brasiliane, delle albanesi, dei frequentatori di night - giovani o vecchi, ricchi o squattrinati, galantuomini o balordi che fossero. Ne aveva davvero le tasche piene.
Andò nello spogliatoio e gettò nell’armadietto il gilé di paillettes che era obbligato a portare durante il servizio e indossò il suo Loden vecchio di almeno quindici anni, quindi raggiunse l’uscita ansioso di andarsene ma la guardarobiera, una simpatica e ciarliera signorina sui trent’anni, glielo impedì...
«Smonti?»
«Sì, se Dio vuole.»
«Dove vai di bello?»
«E dove vuoi che vada a quest’ora?»
«La notte è giovane...»
«Ma io non più, cara Fiammetta!»
«Non fare il modesto, Giangi, che non ci crede nessuno...»
«Buon per te che hai ancora voglia di scherzare!»
«Eh, la sai lunga tu... Torni anche domani?»
«Mi tocca... Beh, vado, salutami il boss.»
«D’accordo, Giangi - ci vediamo...»
Giancarlo abitava a pochi passi dal night, in un vecchio palazzo scalcinato nel sottoscala del quale avevano ricavato alcuni minuscoli monolocali arredati piuttosto malamente. Il proprietario, un alimentarista attaccato alla lira più che alla sua stessa vita, se ne disinteressava apertamente badando solo a riscuotere entro le scadenze concordate i carissimi canoni d’affitto. A Giancarlo non importava niente dell’aspetto della sua casa. Con il tipo di vita che conduceva - lavorare di notte e dormire di giorno - raramente poteva permettersi ospiti, ma se gli capitava di averne erano persone il cui giudizio non poteva impensierirlo: gente alla buona, vecchi amici troppo ubriachi per tornarsene a casa da soli o donne che non davano alcun peso a quel tipo di trascuratezza giacché s’erano dovute adattare ad altre e ben più gravi sciatterie o disgrazie.
Giancarlo accese la luce e si sedette sul letto sfatto. Si tolse le scarpe e tirò un sospiro di sollievo. Gli dolevano i piedi. Più tardi li avrebbe messi a mollo in una bacinella colma d’acqua calda ed amido, ma prima doveva mettere in lavatrice pantaloni e camicia in modo da avere un cambio pulito entro due o tre giorni al massimo. La tradizione imponeva a baristi e barman di vestirsi rigorosamente in bianco e nero. Erano trascorsi una quarantina d’anni dal suo primo giorno di lavoro e sempre, da allora, aveva indossato quella divisa - Giancarlo ne era nauseato ma ci aveva fatto l’abitudine a tal punto che non riusciva quasi più ad abbinare fra loro colori e capi di genere diverso. «Che strazio...» - bisbigliò pigiando l’ultimo paio di calzini nel cestello - «Devo assolutamente ricordarmi di comprarne ancora altrimenti un giorno o l’altro rimarrò senza...».
Giancarlo aveva fatto quel mestiere sin da ragazzo, da principio come oste in una mescita, poi come cameriere in una trattoria, quindi aveva fatto il barista in una caffetteria e infine, dopo un lungo apprendistato, aveva meritato la qualifica di barman prestando servizio nei locali notturni della riviera, ma adesso era stanco di quella vita disordinata: dormiva e digeriva male, pensava con rabbia ai sacrifici e alle rinunce che aveva dovuto sopportare e non desiderava altro per sé che una quieta e ordinaria vecchiaia. Anelava ai piccoli, ignorati o disdegnati piaceri dei quali era zeppa la quotidianità altrui: alzarsi presto la mattina, mangiare il pane appena sfornato, baloccarsi al mercato, andare al cinema, far tardi leggendo una rivista, guardando il televisore o discutendo di calcio al bar.
Giancarlo si mise il pigiama aspirando alcune boccate di fumo prima di spengere la sigaretta. Sapeva perfettamente che la sua vita era segnata, che non avrebbe potuto permettersene un’altra, che nessuno lo avrebbe aspettato per cena o avrebbe condiviso con lui un film sino a tarda notte. Troppo giovane per andare in pensione, troppo povero per godersi la vecchiaia senza soffrirne, troppo vecchio per farsi una famiglia, troppo disinteressato al calcio per diventarne accanito sostenitore, troppo inselvatichito e smaliziato per far finta d’essere solo lo strano inquilino del piano di sopra. Non c’era un ruolo o un posto diverso per lui. Soltanto dietro il bancone aveva un’identità: all’anagrafe Giancarlo, Giangi per colleghi e amici, Giangibar per i clienti ai quali preparava con tanta apprezzata competenza i loro cocktails preferiti. Certo, non era un gran vivere quello - ma era sempre meglio di un calcio nel sedere.
Albeggiava. Giancarlo si rigirò nel letto per un buon quarto d’ora. Non riusciva a prendere sonno. Si alzò, si preparò una tazza di caffè e decise di andare a comprare il giornale. Si mise le prime cose che gli capitarono sotto mano: un maglione mangiucchiato dalle tarme, un paio di jeans, i mocassini da lavoro ed una giacca a vento macchiata di vino. Scese in strada. La stanchezza gli annebbiava la vista e gli faceva battere i denti, ma l’aria gelida del mattino anziché ucciderlo lo rinfrancò facendogli apprezzare l’ottima idea che aveva avuto. Si guardò intorno: un gatto frugava nella spazzatura, un vecchio netturbino spazzava via cicche e cartacce. Poi il trillare fastidioso di una sveglia si unì alla saggina strascicata sui lastroni di pietra e Giancarlo tornò indietro con la mente a quand’era bambino e per dare una mano in famiglia raccoglieva cartone: doveva farlo prima che arrivassero gli spazzini per questo usciva di casa assai prima di loro. Il secondo e terzo giro lo faceva quando gli altri erano a tavola. Non voleva che i suoi compagni di scuola lo vedessero con il carretto carico di scatoloni e masserizie. La gente buttava via di tutto, anche cose belle o ancora funzionanti - sapeva di non fare nulla di male appropriandosene, ma aveva vergogna di sé e della povertà che lo costringeva ad alzarsi molte ore prima dei suoi coetanei. Giancarlo conosceva già quel silenzio, i rumori della città nei momenti del riposo, il lento, consueto addormentarsi e svegliarsi nelle case. Non ne era né spaventato, né angosciato, adesso. Anzi, scoprire che quell’atmosfera non era affatto mutata nel tempo lo rassicurò: lui non era uno straniero, quella era la sua casa, la sua città, la sua terra e l’amava, in quel momento e nonostante tutto, Dio quanto sentiva d’amarla!
Qualche giorno prima Fiammetta gli aveva detto: «Giangi, non hai ragione di lamentarti... Guarda laggiù, sì, il Dottor De La Valle - pensa, un ingegnere! Tutta la vita chino sui libri, sui conti, ad essere responsabile del lavoro fatto da altri, magari credendosi indispensabile, ed ora niente, più nulla: la ditta chiude e tanti saluti. Che vuoi che faccia lui, alla sua età - pensi che potrebbe adattarsi a fare il garzone in una bottega? Pensi che qualcuno lo assumerebbe per farglielo fare? Macché... Per noi è diverso, noi un lavoro lo troveremmo comunque, qui o altrove, di giorno o di notte, dietro un banco, intorno ai tavoli o con le braccia a mollo nell’acqua unta e bisunta - di noi c’è sempre bisogno... Al giorno d’oggi un diploma e trent’anni di buste paga timbrate dalla stessa azienda non sono mica un poker d’assi!». Lì per lì Giancarlo le avrebbe voluto rispondere che è facile parlare quando si è giovani e si ha una famiglia che ci protegge, ma era stato zitto perché non aveva voglia di polemizzare, di piangersi addosso. Eppure, ora lo capiva, Fiammetta aveva ragione - lui non era poi così sfortunato e comunque, dopo un mese trascorso a pane caldo e partite di calcio, sarebbe certamente morto di noia!
«Freddino stamani, eh?»
«Ieri mattina era anche peggio.»
«Cosa dicono le previsioni?»
«Neve.»
«Ah!» - Giangi sorrise pensando a quanto sarebbe stato bello uscire a quell’ora trovandosi immersi nella neve, ma non volle infierire contro il poveretto - «Speriamo di no.»
L’anziano netturbino riprese a spazzare cicche e cartacce. Lui si frugò nelle tasche: «Ne vuole una?»
«No, grazie, ho smesso.»
«Buon per lei…» - Giancarlo si strinse attorno al collo il piccolo bavero della giacca a vento - «Beh, allora buona giornata e buon lavoro!» e con passo spedito si allontanò lasciando dietro di sé una lunga, leggera scia di fumo e fiato.

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