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Aggiornato Domenica 04-Mar-2012

 

Davide passò con il suo furgoncino accanto ad una vecchia Simca fumante, abbandonata sul ciglio della strada. Svoltò a destra e dopo una breve discesa giunse davanti al cancelletto della sua abitazione. Era tardi. Gli rimaneva giusto il tempo per mangiare un boccone, preparare l’itinerario delle consegne e ripartire.

Consegnava piante e fiori per conto di un vivaio. Lavorava dalle sei alle tredici, perciò aveva libero tutto il pomeriggio e siccome non se la passava tanto bene, da un po’ di tempo arrotondava il misero stipendio facendo il fattorino per i negozi che riforniva al mattino.

Parcheggiò, entrò nel giardinetto condominiale e proprio mentre cercava le chiavi per aprire il portone, vide che dalla sua cassetta delle lettere sbucava una busta. La prese senza potervi badare, entrò in casa e corse in bagno. Non ne poteva più, ancora qualche minuto e sarebbe esploso.

Stava per alzarsi dal water quando si ricordò della busta. Chi poteva essere? Lui non riceveva mai posta, a parte bollette e pagamenti rateali. Pensò: «O sono il fortunato vincitore di un premio milionario o è un’altra catena di Sant’Antonio – che il cielo li strafulmini tutti quanti!» - quindi se la tolse di tasca, la guardò davanti, la guardò dietro, ma non trovò alcun riferimento che gli fosse di aiuto. Sulla busta c’era solo il suo nome, cognome e indirizzo. Davide notò che la calligrafia era piuttosto gradevole, sebbene forse un po’ troppo angolata, obliqua. Il tratto, invece, gli parve incerto, come tracciato da una mano tremante. L’aprì…

 

Egregio Signore, noi non ci conosciamo e forse non è una gran perdita per entrambi. Ad ogni modo non Le scrivo per dirLe cose che hanno ben poca importanza, ormai, bensì per informarLa che a distanza di nove anni dalla morte di Suo nonno, riordinando in soffitta dove conservo tanti cari ricordi, ho trovato in un libro che gli apparteneva un appunto che ritengo sia mio dovere consegnarLe giacché riguarda Lei e la Sua famiglia.

Distinti Saluti.

 

«Uno scritto del nonno??? Questa sì che è bella…» - pensò Davide assai perplesso. Non era corso buon sangue fra i due e men che mai fra lui e l’intera famiglia paterna, sicché si erano tacitamente mandati a quel paese e persi di vista già undici anni prima che Luigi morisse. Suo nonno era l’ultimo discendente dell’ingloriosa casata dei Marchi e quando nel 1988 si spense lasciando il poco che non aveva fatto in tempo a dilapidare ad un oscuro maneggione, Davide pensò con sollievo che fosse finalmente giunto il tempo di archiviare l’intera faccenda.

Estrasse dalla busta una seconda lettera e lentamente la lesse…

 

Ca’ De Nobili, 6 Gennaio 1988

Nacqui nel 1897. La mia famiglia era assai benestante e crebbi agiatamente, nella spensieratezza. Mio padre era un uomo allegro, non si occupava né degli affari, né della casa, né di tutti noi perché diceva di non averne il tempo. Mia madre ci governò finché fu in vita, ma siccome morì piuttosto presto e mio padre continuava a non mostrare alcun interesse per i figli e le faccende spicciole, già da ragazzo potei disporre liberamente del mio tempo e di un discreto vitalizio con il quale mi mantenni senza risentirne. Nessuno mi aveva educato ad amministrare il denaro e mio padre non era certo un esempio di virtù e oculatezza – così non fui prudente, né parsimonioso: dilapidai tutto in poco tempo. Morì anche lui lasciandoci in eredità alcuni terreni agricoli, un po’ di denaro e qualche appartamento. Io e mio fratello vendemmo quello che ci serviva per liquidare i parenti e farci un gruzzoletto. Lui, che era un appassionato di meccanica, con la sua parte ci aprì un’officina, io, che ero un appassionato di cavalli, spesi una fetta consistente della mia all’ippodromo. Mi piacevano le belle donne e i bei vestiti. Offrivo cene e divertimenti, concedevo prestiti e giocavo a carte. Sin tanto che ho potuto non mi son fatto mancare nulla, poi i soldi finirono ed ebbi la fortuna di incontrare tua nonna. Oh, non era una gran bellezza, ma era una donna sana e robusta, aveva un’attività propria, carattere da vendere e soprattutto era sposata, cosa che mi permise di rimanere libero da vincoli, obblighi e responsabilità. Suo marito era sparito lasciandola sola con un figlio e quando la conobbi era pregna di un bastardo. Lei aveva bisogno di qualcuno che gli desse un nome ed io di qualcuno che mi procurasse da vivere. L’accordo era fatto: io avrei rivendicato la paternità di tuo padre, lei avrebbe provveduto a saldare i miei debiti, mi avrebbe vestito e sfamato finché ne avessi avuto abbastanza.

Provar vergogna? E perché dovrei? Non sono stato né migliore, né peggiore di tanti. Ho fatto quello che era più conveniente. Sono stato come mi è parso d’essere. Non ho deluso alcuna aspettativa semplicemente perché nessuno mi ha chiesto di fare o diventare altro. Come la maggior parte dei miei amici sono partito per la guerra, ho sostenuto la monarchia, ho aderito con entusiasmo al fascismo, ho accettato di buon grado prima i tedeschi e poi gli alleati, con entrambi ho fatto buoni affari, ho votato contro la Repubblica, ho ingannato e tradito il mio prossimo – insomma, come tutti mi sono riempito la pancia ogni volta che se n’è presentata l’occasione, ma a differenza degli altri non ho mai finto che le conseguenze m’importassero. A me non è interessato d’arricchirmi, quindi non l’ho fatto e ciò, credimi, è quasi un crimine, perché se t’abbuffi senza accumular ricchezze non diventerai mai un onesto cittadino, una brava persona, sei e resterai un fallito, un parassita… Che assurdità, sono stato disprezzato più per questo che per il resto. In fondo tutti sapevano che avevo una relazione con la donna che tuo padre stava per sposare prima di incontrare tua madre, ma nessuno, a parte lui, se l’è presa – nemmeno tua nonna. Che rubassi parte dell’incasso giornaliero era risaputo, ma d’altronde lo facevamo tutti in famiglia – che male c’era. Ed anche che abitualmente giocavo d’azzardo e frequentavo donnine allegre si sapeva, eppure bastava che non dessi troppo nell’occhio e potevo star tranquillo. L’ipocrisia, a guardar bene, fa proprio comodo - è lei che regge il mondo.

Ecco, figliuolo, adesso sai le ragioni che hanno scatenato la rabbia di tuo padre, adesso sai perché s’è roso l’anima sino a morirne. Ci hai detestati entrambi ma sappi che le premesse fanno la storia e guardando la vita da questo punto di vista ogni cosa si può accettare, fors’anche comprendere, spiegare – senza diventarne per forza vittime.

Per quanto postumo, ti mando il mio saluto: dimenticaci tutti e vai avanti per la tua strada - più libero e sereno che puoi.

 

Davide rimase come pietrificato, i calzoni abbassati ed una faccia da far spavento. Non riusciva a fermare i pensieri. I ricordi riemersero con una tale nitidezza che gli parve di essere tornato indietro nel tempo. Vedeva sua madre riversa sul pavimento, la sentiva supplicare mentre suo padre, ubriaco come al solito, la prendeva a calci nel costato. Vedeva suo nonno che gli diceva con indifferenza, quasi che tutto quello non lo riguardasse: «Tuo padre ha tagliato il tubo del gas, vuol farvi saltare in aria…» - e lui, un ragazzino di appena quattordici anni, si era coperto il viso con un fazzoletto, aveva aperto la porta di casa, staccato la corrente, spalancato le finestre, chiamato i pompieri… Rivedeva il loro sguardo interdetto di fronte al mobilio fracassato, le porte scardinate, le bottiglie lanciate contro le pareti… L’odore, Dio, quell’odore di liquore mescolato con il gas! Per anni Davide se l’era portato nel naso senza riuscire a liberarsene. Improvvisamente fu tutto chiaro. Comprese di suo padre l’odio, di sé l’avversione che sempre aveva avuto per suo nonno ed ebbe un unico desiderio: ricacciare nel buio quei volti, nel silenzio le urla.

Dopo la sua morte aveva scritto qualcosa, così, di getto. Si tirò su i calzoni e corse a rovistare in un vecchio cassettone. Cercò i dattiloscritti dell’88...

 

È proprio vero: la morte pareggia i conti di chi va e chi resta.

Da tempo ti ho cancellato dal mio cuore, sebbene non abbia smesso di rispettare i tuoi anni come sono abituato a fare con tutto quello che è testimonianza di storia, un po’ come una miniatura, un testo antico o un filmato di repertorio – la tua vita di uomo, se tale ti si può definire, non m’interessa.

Tu e tutta la genia che rappresenti, siete la mia croce, le mie ali spezzate, la mia cancrena – e all’incertezza d’esserti consanguineo, preferisco pensarmi orfano.

Prima la nonna, poi papà, adesso te. La morte ha pareggiato i vostri conti ma non ancora i miei, tuttavia ci guadagno il senso di liberazione, un’amara e forse inservibile consolazione: non ci siete più, finalmente la vostra presenza ha smesso d’essere una persecuzione. In quanto alle piaghe che m’avete lasciato, beh, vedrò di non dimenticarle perché è nel ricordo di quello che avete fatto, di quello che siete stati, che trova pace la mia coscienza. Non vi somiglio. Non ho ereditato la bestia che c’era in voi ed anche se è vero che non sono felice, non è del vostro male che m’avveleno. Grazie per il sangue. Ho imparato che le ferite sono ben poca cosa, che il dolore è sopportabile se non se ne è responsabili, che spesso aiuta a crescere, fortifica e spinge a migliorarsi.

Spero di andarmene assai prima che mi divenga insostenibile il peso di un conto che ho aperto – mio malgrado – in questa vita con la vita…

Buon viaggio, nonno – salutami tutti quando arrivi.

 

Davide pianse, ma non erano lacrime di sofferenza, quelle. Era gioia e sollievo, una sensazione nuova di gratitudine perché dopo anni di supposizioni e dubbi, finalmente si stava aprendo una crepa nel muro d’omertà dietro al quale aveva visto consumarsi la confusa e inquieta esistenza dei suoi padri, l’umana tragedia delle loro sciagurate vite.

Sì, Davide aveva sofferto immensamente durante quelli che avrebbero dovuto essere i suoi anni migliori, quelli dell’infanzia e dell’adolescenza. Non poteva rimpiangerli perché non li aveva amati, né vissuti – glieli avevano portati via, rubati, eppure non aveva mai provato rancore. Non fu capace di odiare e forse proprio per questo in lui non crebbe l’istinto distruttivo che aveva tormentato suo padre.

«Ecco tutto, io non ho meriti.», sospirò Davide richiudendo il cassettone, quindi soffocò l’ultimo singhiozzo, si asciugò le guance con il dorso delle mani, si abbottonò i pantaloni e senza perdere altro tempo raggiunse la cucina.

Doveva far presto, altrimenti non avrebbe fatto in tempo a consegnare il mazzo di rose per le due e trenta. Afferrò una banana, s’infilò la giacca a vento e sorridendo ai suoi occhi gonfi riflessi nello specchio, pensò a quant’era felice d’esser diventato quel che era.

 

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