Rinaldo era irritato. Non sopportava la gente come quel tipo là, sempre pronta a ciaccolare di stupidaggini. Non era un uomo scorbutico o privo d’ironia, né aveva in antipatia il genere umano, ma gli sembrava terribilmente sciocco aprire la bocca tanto per fargli prendere aria.
Accumulò con calma in mezzo alla strada una bella montagnetta di sporcizia e come faceva ogni giorno, prima di raccoglierla lanciò i sacchetti della spazzatura sul suo Apino prima che qualche gatto alla ricerca di cibo insudiciasse dove aveva già pulito. Gli piaceva l’idea di lasciarsi alle spalle una strada o una piazza perfettamente riordinata, gli piaceva fare quello che doveva al meglio delle sue possibilità. Era un “preciso”, lui, e non a torto pensava di essere uno dei pochi che meritavano lo stipendio. Non si vergognava del suo mestiere, al contrario, ne era orgoglioso. Ringraziava il buon Dio perché gli aveva dato una bella famiglia e tanta salute, ma ancor di più perché gli aveva fatto incontrare il Commendator Angelini grazie al quale era stato assunto all’Azienda Municipalizzata. Così, per non far torto a nessuno, si era sempre comportato bene, oltre il necessario. Era un uomo vecchio stampo, generoso e lavoratore – nessuno poteva lamentarsi di lui.
Finalmente arrivarono le dieci, l’ora in cui aveva deciso di concedersi una pausa. Fermò l’Apino davanti ad un negozio di fiori e vi entrò.
Era una piccola ma ben fornita botteghina e Rinaldo si stupì della gran varietà di fiori che conteneva. Pensò a quanto sarebbe stato bello provare a coltivare in giardino qualche pianta strana, esotica, ma poi l’idea di vederla morire perché magari il clima o il posto non erano adatti gli dispiacque moltissimo e subito accantonò quel pensiero limitandosi ad aspettare il suo turno. La commessa stava sistemando in una conca di terracotta alcune graziose piantine per una Signora che, pur continuando a conversare amabilmente con lei, stava scrivendo qualcosa su un biglietto rosa. Lo rilesse e poiché parve non esserne affatto soddisfatta, lo stracciò e buttò nel cestino. «Non fa niente, ci penserò più tardi.», disse fra sé, quindi pagò rifiutando il resto, prese con delicatezza la bella composizione e, augurando agli astanti una buona giornata, se ne andò lasciando nella stanza un intenso e persistente profumo d’ambra. Rinaldo rimase a bocca aperta, stordito da quel profumo che non aveva mai sentito e non avrebbe potuto descrivere nemmeno a se stesso…
«Il Signore desidera?»
Per Rinaldo fu un brusco risveglio. Quasi non sapeva più dov’era e perché. Esitò qualche istante, infine chiese: «Potreste recapitare un mazzo di fiori?» - la risposta affermativa della commessa lo riempì di gioia facendogli dimenticare lo smarrimento nel quale si era inspiegabilmente trovato - «Ah, bene! Allora vorrei mandare a mia moglie venticinque rose. Ventiquattro gialle ed una rossa – sa, oggi festeggiamo le nozze d’argento…»
«Che meraviglia! Auguroni e complimenti, complimenti davvero! E quant’è fortunata la sua Signora ad avere un marito ancora tanto affezionato!», esclamò la ragazza.
Rinaldo si sentì avvampare. Aveva pudore del suo amore e poi gli sembrava di vedere il viso incredulo della sua Bice e questo gli procurava una grandissima emozione, ma soprattutto si rendeva conto di quant’era fortunato lui ad avere incontrato una così brava donna e quasi non la meritasse, sentì di non aver fatto abbastanza, di non averle dimostrato con sufficiente premura tutto l’amore e la stima che provava per lei. «Venticinque anni e nemmeno un litigio.», dichiarò soddisfatto e il ricordo lo riportò indietro nel tempo attraverso le tappe fondamentali della loro unione: l’amicizia sbocciata rubando cocomeri in un campo, l’amore cresciuto in entrambi senza che se ne accorgessero, i primi baci e la paura di essere scoperti, l’ostilità delle famiglie ed il lungo, sofferto fidanzamento segreto, la fuga, il matrimonio, il lavoro in Germania, il primo figlio, il ritorno al paese, la casa costruita giorno dopo giorno, nei ritagli di tempo, dando fondo a tutti i risparmi, il secondogenito che non sopravvisse ad una polmonite e l’ultima figlia, bellissima, nata che Bice era già su con l’età, voluta nonostante il parere contrario dei medici.
«Dev’essere bello voler bene alla stessa persona per così tanto tempo…» - sopirò la fioraia avvolgendo nel cellophane le venticinque rose disposte a ventaglio - «Pensa che le piacerà?» - al centro della composizione spiccava, più grande e matura delle altre, quell’unica rosa rossa che Rinaldo aveva voluto chissà per quale ragione. Il flusso dei pensieri si arrestò di colpo e lui, che quasi non riusciva ad articolare le parole, balbettò uno striminzito “sì-sì” che scoraggiò la ragazza. «È sicuro? Se non è contento lo rifaccio, non è un problema…»
«Oh, no – va benissimo, anzi, è talmente bello che le verrà un accidente!» - scherzava Rinaldo, intimidito cercava di nascondere il senso di colpa che provava per non aver abituato sua moglie a tanta bellezza.
«Preferisce un fiocco giallo o rosso?»
«Forse è meglio rosso?»
«Accentua il contrasto…» - la ragazza glielo dimostrò facendo scivolare sulla composizione il lembo di un nastro rosso porpora - «Nel frattempo, se vuole scrivere due righe alla sua Signora…» e accompagnò l’invito indicando una mensola sulla quale avrebbe potuto scegliere il biglietto più adatto. Rinaldo ne prese uno a caso, vi scrisse qualcosa, lo chiuse in una busta incollandone i bordi e ridacchiando glielo porse: «Può recapitarli nel primo pomeriggio, alle due e mezzo precise?»
«Ma certo, alle quattordici e trenta in punto!».

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