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Aggiornato Martedì 04-Set-2007

 

Detestavo le bambole. Finivano sempre legate ad un palo e non gli ho mai risparmiato alcun tipo di tortura. Naturalmente adoravo i soldatini e le costruzioni. Per Carnevale avrei tanto desiderato un costume da cowboy, da Zorro o da ufficiale napoleonico (monotematica, certo, ma a 360°!), ma mia madre non trovò niente di meglio che vestirmi da “Damina dell’ottocento” e da “Olandesina” (due soli costumi, portati a oltranza - poi, quando fu evidente che non saremmo sopravvissuti ad un altro Carnevale, si rassegnò al fatto che stavo crescendo e mugugnando oppose l’ennesimo rifiuto: “Ti vestirai come ti pare quando sarai grande!”).

Gli utensili da lavoro di mio padre prima, pennarelli e matite colorate durante, l’arco e le frecce poi, hanno reso evidenti le mie inclinazioni - a nulla serviva cercare di cambiarle.

Mia madre poneva rimedio ai guasti del tempo, della vita e dei figli, mettendomi all’opera - così, già a dieci anni, ero un esperto artigiano capace di sostituire vetri rotti, aggiustare lucidatrici logorate dall’uso maniacale che ne veniva fatto, imbiancare dove avevo preteso di lasciare un segno indelebile della mia enorme creatività. Oggi faccio esattamente le stesse cose, solo che decido io quando e con chi farlo e se decido di farlo, generalmente mi pagano.

C’era preoccupazione per le mie evidenti propensioni eversive? Altroché! Mio padre, una specie di estremista con velleità fascistoidi e anarcoidi (lo so che non è la stessa cosa, ma vai a spiegarglielo) che ha vissuto pensando di essere un superuomo e che invece è riuscito ad essere solo una strana accozzaglia di personaggi presi in prestito dalla mitologia popolar-casereccia (da Mussolini a Fred Buscaglione, per intenderci), naturalmente voleva un maschio e naturalmente ne ha avuto uno che non poteva soddisfarlo in alcun modo: me. Ha lottato con le unghie e con i denti per ottenere la mia venerazione e ovviamente ha fallito. Lo fronteggiavo alla pari, sempre, e questo lo mandava su tutte le furie. Gli somigliavo tanto ma il mio nome non finiva con una “o” - quindi il mio antagonismo non era “naturale”. Mi fosse cresciuto il “pistolino” sarei diventata grande e grossa così gli avrei spaccato la faccia a quel dannato tronfione!

I bambini sanno che si può fare molto male anche senza menare le mani e tuttavia conoscono i limiti imposti dalla loro appartenenza di genere, quello che non possono sapere è che cambiare aspetto non cambia l’anima (in questo senso diventare adulti rimanendo bambini e diventare adulti senza prendere coscienza di sé, sono le due facce della stessa medaglia.)

 

 

…Un argomento che brucia, che riguarda ogni essere umano, nel bene e, prevalentemente, nel male.

Padri, madri che scappano, tradiscono, ignorano, offendono, feriscono - persone abbandonate, tradite, ignorate, offese, ferite.

Qualche anno fa ero pronta ad ucciderlo, non c’era altra soluzione. Se ne andò da sé, definitivamente. Nove anni dopo la sua morte (tanto durò il nodo in gola) mi ritrovai a scrivere queste righe…

 

 

A quest’ora camminare non è faticoso. Percorro le strade trascinandomi sui gomiti - pelle contro selciato, carne contro pietre. Il calore, gli odori, la vita dietro le finestre spente. A quest’ora lo sguardo non vede che angoli bui, l’orecchio non ode che l’eco distante del giorno, ma dietro quei muri il corpo del mondo carezza lenzuola, stanco respira fatica e speranze – sogni e promesse.

Passeggio e all’improvviso la mente precipita all’indietro: «Vieni, la merenda è pronta!», ma nessun sorriso mi accoglie, nessuna mano carezza la mia fronte sudata - allora come adesso il cibo non è una festa allegra.

“Non si può cambiare quello che è stato” - e allora corri, bimba bella, corri che il patibolo è ben apparecchiato come il giorno di Natale la tavola! Corri a guardare nel piatto quei bocconi sputati di nascosto, torna a desiderare di sparire dalla faccia della terra - vai, che aspetti? Temi forse di poter davvero tornare indietro? Sciocchina…

E ancora ecco, confusa con il profumo dei tigli in fiore, la scia odorosa mista a tabacco e dopobarba che mio padre si lasciava alle spalle. Negli occhi mi rimanevano impresse per ore quelle guance rasate, lucenti, quel viso squadrato, le mascelle volitive - lo osservavo attraverso lo specchio e tremavo di paura: sempre un sorriso o l’apparente allegria dei suoi occhi chiari potevano trasformarsi in delirio e crudeltà, sempre la durezza avvincente del suo viso si trasformava in cieca e gratuita violenza. Per tutta la vita, quella vita che tengo chiusa in un cassetto, conserverò in me il ricordo nitido e agghiacciante della sua pelle di daino, delle sue grandi, tozze e forti mani sporche… Ecco la mano sinistra priva della prima falange del dito indice! Ecco la destra che mi alza di peso! Eccole entrambe che colpiscono il dorso delle mie per punirmi e umiliarmi… Ed ora, ecco, vedo i capelli: cortissimi, biondi come il grano, pungenti - sospirati, amati, temuti… Ali, aveva un miliardo di ali in testa il mio aguzzino e viaggiava zingaro nel sangue come io viaggio triste nel dolore!

Padre, padre mio, una vita mi hai dato perché possa piangerla e viverla senza gioia. Dannato sia tu che hai mietuto i miei passi, la mia voglia di viverti e salvarti l’anima. Dannato sia tu che hai fatto del mio genio il boccone che vomitavo di nascosto piena di rabbia, vergogna e umiliazione, quando mi obbligavi a mangiare chiusa nello sgabuzzino. Papà, ogni corpo maschio ti somiglia ma non ti eguaglia: siete tutti simili ma fra tutti tu eri il più temibile, il più bello e spietato - di te sono una miniatura, papà, il tuo opposto femminile. Nel portafoglio conservo una tua fotografia ed anche una della mamma - mi piacerebbe che tu lo sapessi, mi piacerebbe dirti che sono la tua sterile estensione, un concentrato silenzioso e invisibile della tua follia e del tuo estro. In comune abbiamo le sbarre (tu le hai viste dal di dentro, io le vivo dal di fuori) - come posso parlarne senza piangere, senza piangervi tutti? Ci sono esseri a cui le ali sono negate perché essi stessi sono l’aria che vorrebbero fendere, aria destinata all’impalpabilità, alla vacuità - anche questo abbiamo in comune. Grazie per avermi trasmesso i tuoi lati migliori. In quanto alla mamma, beh, invecchia e nelle sue rughe, fra i suoi capelli bianchi, nelle piaghe che le hai lasciato sulla pelle, leggo i sogni che avete infranto, vi riconosco la donna che più di ogni altra ho amato e per la quale ho sacrificato, felice, i miei anni migliori. Vedi, papà, se fossi vivo non avrei bisogno di scriverti - mi siederei di fronte a te e lascerei libere le parole di correrti incontro, di circondarti e braccarti come meriti. Mi chiedo se dopo avermi ascoltato saresti ancora capace di guardarmi negli occhi senza odiarmi, senza aver voglia di cancellarmi dalla faccia a martellate la tua eredità. Ma non posso saperlo, non posso parlarti e nemmeno posso cambiare i nostri primi venti anni di vita. Eri un fottutissimo vigliacco, papà, un patetico frustrato, un uomo accecato dal rancore che beveva per sembrare e sentirsi più forte, invulnerabile e perfetto di Dio - non avevi nessuna stima di te stesso e nulla poteva lenire il dolore che ti divorava l’anima, nulla, né il fiele o l’alcol ti avrebbero cancellato dal cuore tutto l’odio di cui eri capace. Bevevi per sopportarlo, per liberartene, ma alla fine riuscivi solo ad essere più rabbioso. Ci punivi e bastonavi come facevi con i tuoi cani, pretendevi ed ottenevi da noi la loro stessa sottomissione ed ubbidienza, ma non potevi esserne contento, non potevi esserne fiero: niente di quello che hai avuto era autentico - avevamo terrore di te, papà, come potevamo amarti e rispettarti sinceramente? I sentimenti estorti con l’inganno e la violenza sono la peggiore punizione alla quale ci si possa condannare - probabilmente tutto quello che hai fatto è servito a questo.

Lì dove sei di certo te lo rigiri fra le mani il tuo fardello di errori e orrori, e forse adesso, davvero, hai trovato quella buona ragione che qui ti è mancata per smettere di alzare le mani e la voce. Quella buona ragione, papà, è anche la mia: se ne sta tutta rattrappita nel palmo della mia mano ed è l’uomo che tu hai buttato via.

 

 

Un papà, una mamma...

Non so, in effetti, quanti di noi li abbiano avuti - non molti, temo, non come ci immaginavamo che dovevano essere.

Ognuno fa i conti con le lacerazioni che “il primo amore” ha lasciato: ferite aperte o rimarginate che dolgono, con le quali si è dovuto imparare a convivere, malgrado tutto.

Madri e padri feroci o indifferenti - anime perdute, perse in loro stesse. Esseri umani che il più delle volte non hanno ricevuto un trattamento migliore del nostro, che vivono e si esprimono nell’unico modo che conoscono, prigionieri del loro piccolo inferno fatto di violenze, disincanti, rimpianti, rivalse subite ed esercitate. Aggrappati alle loro piccole sicurezze, barchette di carta che la vita immancabilmente affonda trascinandole via in un incubo che par non aver fine.

E loro bevono, sragionano, alzano le mani, vendono o regalano tutto, rubano, ingannano, tradiscono, mentono, pretendono, si ammalano e fanno ammalare - eterni bambini piagnucolosi o pieni di livore, violenti, sciocchi, succubi - talvolta indifesi, sempre indifendibili.

Alcuni si salvano, altri no. Alcuni muoiono, altri no.

E noi che siamo cresciuti, che abbiamo trovato il modo di sopravvivergli, ancora di tanto in tanto ci voltiamo a guardarli - per non dimenticare le ragioni che ci hanno resi diversi, forse salvandoci l’anima...

 

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