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Aggiornato
Mercoledì 05-Set-2007
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Eligio fu un uomo mite, introverso e solitario - emotivo. Quando il verdetto dei medici gli confermò che non avrebbe potuto suonare il clarinetto, non a livello professionale almeno, si accartocciò su se stesso. Maledetta asma. Stramaledetta! Non ne aveva mai sofferto ma verso l’età dello sviluppo, specialmente quando qualcosa lo turbava, cominciò ad accusare i primi sintomi: si stancava facilmente, a volte l’affanno era tale che gli sembrava di morire: portava la bocca all’ancia, immetteva un po’ di fiato e subito doveva smettere, respirare più che poteva eppure non bastava, per ore rimaneva così, spaventato, comprimendosi il petto, pregando Dio che non gli facesse questo... Già, non sarebbe andato molto lontano anzi, non sarebbe andato proprio in nessun posto, né avrebbe potuto fare altro perché altro non voleva. Desiderava andarsene, Ligio, lo aveva sempre sognato. Aveva studiato, sgobbato sodo per riuscirci. Che futuro poteva avere a Lucca quest’ometto minuto, gracile e taciturno? Ligio era omosessuale senza averne una percezione precisa – e sana. Un omosessuale di quei tempi - pieno di vergogna e sofferenza, paura, portatore d’una malattia inconfessabile e straziante, destinato alla solitudine, ad estorcere l’amore o cercarlo dove nessuno avrebbe pensato si trovasse: in un cinema a luci rosse, nel buio di un vicolo, comprato o venduto a buon prezzo da quei ragazzi di vita che le caserme strappavano alla miseria per sbatterli in trincea, e su un marciapiede. Era pericoloso averne bisogno, si rischiava il confino, d’essere picchiati selvaggiamente o peggio, finire ammazzati. Se fosse diventato un musicista avrebbe girato l’Italia, frequentato uomini e donne di cultura, moderni, gli ambienti giusti. Ad un artista si tollerano certe stravaganze, specie se moderatamente esibite, meglio se tenute nascoste, vissute con pudore e riservatezza, fra pochi intimi. Ma il Signore aveva disposto diversamente, non gli rimaneva che abbassare la testa, nascondersi al mondo e forse a se stesso. Sua madre non gli diede alternative: o con lei, o contro di lei – d’altronde nelle sue condizioni cos’altro avrebbe potuto fare? Eligio si rassegnò a subirla, in cambio lei lo avrebbe lasciato in pace, non avrebbe chiesto, indagato, sindacato. Ligio cominciò a frequentare una benestante e solitaria signora circondata da cani e gatti - la condivisione di questo amore per gli animali giustificava la loro discreta amicizia, ma evidentemente avevano altro in comune. La casa della Signora Menotti era frequentata da un ristretto giro d’insospettabili che normalmente le facevano visita dopo il calar del sole - ombre furtive e silenziose che pochi potevano dire di aver visto arrivare, o andarsene. Non era prudente esporsi. I delatori si stavano costruendo una fortuna sulle disgrazie vere o presunte degli altri. Finché visse la frequentò trovando rifugio e conforto - solo lì riusciva a non sentirsi anormale, completamente inadeguato, solo lì poteva scambiare due parole che avessero un senso. Talvolta la Signora Menotti si sedeva al piano e allegramente, quasi a voler scacciare i cupi presagi di quell’epoca inesorabile, intonava le melodie in voga, le belle romanze, le canzoni che parlavano d’amore, di una vita alla quale non avevano diritto, dalla quale erano “naturalmente” esclusi. Altre chiacchieravano sorseggiando un Cordiale, oppure giocavano a carte, o ascoltavano la radio commentando gli eventi con giustificata preoccupazione. Qualcuno sparì e non fece più ritorno. Altri fecero in tempo a fuggire. Alcuni riuscirono a nascondersi talmente bene che sopravvissero. Ligio fu uno di questi. La malattia lo salvò: riformato. Rischiò persino la deportazione ma sua madre, come abbiamo visto, operò il miracolo. Fumava non meno di due pacchetti di sigarette al giorno, mangiava pochissimo, rifiutava le medicine e trascurava gli acciacchi, viveva nella casa materna in condizioni igieniche al limite dell’umano, quasi senza lavarsi, cambiare le lenzuola, nell’umido e nella muffa, fra i parassiti e gli escrementi della sua colonia di gatti - per quanto tentasse di porre fine alle sue sofferenze abbreviandosi la vita in ogni modo, inspiegabilmente resisteva. Ligio non parlava, bofonchiava – poco e solo quando non poteva farne a meno. Non deambulava, strisciava - sempre lentamente, di rado quando gli altri glielo imponevano, spesso a scoppio ritardato o per finta. Non sapevi mai cosa pensava, dov’era, cosa faceva. La sua vita privata, se c’era, e le sue opinioni, se le aveva, semplicemente non esistevano. Questo è il ricordo, un misto fra realtà e supposizioni postume. Qualche anno dopo la sua morte conobbi un uomo che negli anni cinquanta era un ragazzino. A quel tempo non c’erano gli asili, né il doposcuola – le famiglie meno abbienti che non potevano seguire i figli o darli in custodia a persone di fiducia, li abbandonavano da soli a giornate intere, liberi di andarsene dove volevano. I più accorti, o perlomeno tali erano convinti di essere, al costo di un solo biglietto e a prescindere da quello che veniva proiettato, li portavano al cinema lasciandoli lì sino a sera – al sicuro, pensavano, mica per strada come i piazzaioli (2)! Ma al cinema ci andavano anche gli adulti molti dei quali non avevano alcun interesse per la cinematografia… Enrico mi raccontò di un ometto disgustoso, e non era l’unico, che per anni lo palpò e si fece palpare, non solo da lui – era mio zio. Fu un’autentica rivelazione – per me Ligio era stato poco più di un’ameba, un’oscura e talvolta fastidiosa presenza, costante e ininfluente. Non riuscì a farmi di lui un’idea diversa, peggiore o migliore, non avevo dati sufficienti, né alcuna certezza che quella storia fosse vera. Ma le sorprese non erano finite. Più tardi fui avvicinata da un vecchio amico di famiglia, un noto commerciante assai estroverso, un brav’uomo rimasto celibe, stimato da tutti per la sua amabilità e gentilezza… Come se niente fosse, mi disse che faceva visita alla tomba di mio zio tutti i giorni, la teneva pulita e ordinata, cambiava i fiori, si assicurava che il lumino fosse sempre acceso. Siccome erano passati parecchi anni ed aveva rischiato di finire in un ossario, si era personalmente premurato di acquistargli un loculo e mi spiegò dettagliatamente dove avrei potuto trovarlo. Non riuscivo a capire, ero basita. «Ho ancora tutte le sue cose: i vestiti, gli effetti personali, ho anche i suoi documenti, la sua carta d’identità – se vuoi te la faccio avere…». Devo aver fatto una faccia assurda, ma era talmente assorbito nei suoi pensieri, nei ricordi, che non se ne accorse. Riuscì a dirgli soltanto che poteva tenersi tutto, se gli faceva piacere - e lui mi parve sollevato. D’un tratto capì e ancora di più lo stupore mi prese. Ma come, pensai, possibile che in casa mia nessuno sapesse? E allora perché quell’uomo dava per scontato che fossi a conoscenza della loro relazione? No, non potevano non sapere, eppure mai una parola, un bisbiglio… Vi erano state delle velate insinuazioni sulla Signora Menotti, che peraltro non capivo, ed avevo intuito che non approvavano la loro amicizia perché la gente mormorava, non sapevo di cosa, ma nient’altro… Quante vite ha inghiottito il silenzio – di quanta verità e bellezza ci ha privato… è un piccolo-grande dolore che dobbiamo smetterla di sopportare, contro il quale dobbiamo imparare ad opporci - perché la vita non trascorra in vano e a tutto, piacevole o spiacevole che sia, si restituisca la dignità che merita.
Note
1) Frase tratta dal romanzo “Alexis” di Marguerite Yourcenar.
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