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Aggiornato Martedì 04-Set-2007

 

Quanti ricordi...

Se penso alla mia vita stento a credere di aver visto e fatto tanto - mi sembra d’imbrogliare, di raccontar bugie, eppure è vero: ho vissuto, ho dato e ricevuto molto, più di quanto mi par ragionevole adesso.

Le notti. Ho cominciato a viverle quando ancora avevo difficoltà ad articolare le parole, a mettere insieme un pensiero capace di spiegarne le inquietudini e il fascino. Rannicchiata nel mio lettino vegliavo, lottavo con tutte le mie forze contro le palpebre che si abbassavano - avevo l’illusione che se non mi fossi addormentata avrei potuto impedire le urla, i pianti, sarei intervenuta e forse mio padre non avrebbe riempito di botte quella donna che non meno di me, in un’altra stanza, aspettava spaventata il suo ritorno senza sapere che ne sarebbe stato di lei, a quale croce o delizia l’avrebbe destinata. Avevo certamente meno di cinque anni - lei trenta. Era bella, erano belli entrambi - belli e dannati, disperati, senza pietà, coscienza.

5250 notti passate con l’orecchio teso, spiando il silenzio, scrutando nel buio la luce filtrare da sotto la porta, di là le ombre muoversi, cercando d’intuirne i gesti, l’umore, pronta a saltar fuori come l’armata Brancaleone, piccolo Don Chisciotte che nessun mulino a vento avrebbe piegato, nessun fantasma smascherato. E l’indomani la gogna: lentamente distribuire le letterine nell’abbecedario, nel tempo a malapena riuscire a fare due più due - eppure sapevo cos’era l’oscurità, se me l’avessero chiesto avrei potuto parlarne a lungo, con dovizia di particolari, ma che importanza hanno i pensieri di una bimba se non si ha orecchie che per se stessi...

Attese. Ricordo le vigilie di Natale, il grande albero colorato senza pacchi da scartare, la brace nel caminetto che ancora un poco riscaldava il salone. Me ne stavo in agguato dietro una poltrona, pronta a sorprendere l’unico uomo buono e generoso che conoscessi, ma al mattino inspiegabilmente mi risvegliavo nel mio letto, allora, piena di rabbia perché non ero stata capace di rimanere sveglia, schizzavo via veloce, correvo a vedere se avesse lasciato una traccia... Talvolta trovavo i miei regali sparpagliati sul grande tappeto e tutt’intorno: il fortino con i soldati appostati, la diligenza in arrivo inseguita dagli indiani - più in là il villaggio Navajo, le tende, il Totem, i fuochi accesi, le pelli d’orso messe a seccare... Rimanevo a bocca aperta più che altro chiedendomi come avesse potuto far tutto quel trambusto in una frazione di secondo, tanto era durata la mia notte. Probabilmente Babbo Natale era un appassionato lettore di Tex Willer, come mio padre - altrimenti perché ignorava gli altri regali che rimanevano incartati? Perché quello era l’unico gioco che certamente avrei ottenuto? Ancora oggi aspetto “Il piccolo chirurgo”, un microscopio... Credo che i due fossero in combutta, tentassero di tenermi lontana da qualcosa.

E qualcosa di sconosciuto e inatteso arrivò attraverso i suoni provenienti da una scatola... Scoprì che non solo di canzonette era fatta la musica, non solo di sciocchezze e violenza le parole, ma in casa mia era vietato cambiare canale, ascoltare quella robaccia incomprensibile. Allora presi l’abitudine di passare la notte con un orecchio accostato alla radio e l’altro invariabilmente attento ai rumori della casa. Sul terzo trasmettevano musica lirica, classica, contemporanea, jazz, parlavano di cose incredibili: teatro, cinema, letteratura, arte, politica, attualità... Là fuori c’era un mondo difficile ma straordinario ed io capì che lì volevo andare, essere - appena ne ebbi l’occasione lo raggiunsi.

Così le notti smisero d’essere un incubo, viverle divenne un imperativo assoluto perché l’esistenza è una, và presa a morsi, spremuta, distillata... Il paese dei balocchi mi si aprì davanti con i suoi palcoscenici polverosi, le lunghe chiacchierate sino al mattino, i pellegrinaggi alcolici guidando senza patente, le donne (tutte in una, ognuna in tutte). 24, 48 ore ed oltre senza mai fermarsi, a fianco di attori, poeti, pittori, musicisti, persone di ogni età, cultura, condizione sociale. Di giorno talvolta dormire, la notte seguire le orde o lavorare - sfinirsi al cavalletto, scrivere, finalmente sola ritrovare il bandolo della matassa e poi di nuovo perderlo, perdersi e inseguirsi. Anni e anni vagabondare, strisciare lungo i muri e insieme calcare le scene, da protagonista. Poi, a poco a poco, le lancette dell’orologio hanno smesso di correre: 48, 24, 16, il tempo della veglia tutt’uno con il sole, le stagioni - il telefono che quasi smette di trillare, i corpi che cadono come foglie secche... Guardarli volteggiare, giù, sino a terra e ancor più sotto, piangerli e insieme piangere il silenzio, l’immobilità vuota che hanno lasciato intorno a sé.

Addormentarsi sul divano guardando la TV, dopo cena. Svegliarsi all’alba e trarne un piacere che non saprei descrivere. Chiudere gli occhi, riaprirli e scoprire che in quell’attimo un anno è passato, poi due, tre e chiedersi come sia possibile dimenticare quello che si è fatto ieri quando si è capaci di ricordare con tanta nitidezza le luci e gli odori di trent’anni fa. Chiudere gli occhi, riaprirli e scoprire che in quell’attimo tutta una vita è trascorsa e tra meno di un istante non ci sarà più tempo per porvi rimedio, salutare gli amici, dire loro quanto bene gli abbiamo voluto e quanto siano stati importanti per noi, anche quando non abbiamo saputo ascoltarli, li abbiamo traditi o persi nostro malgrado. Scoprirsi infanti con la testa improvvisamente ingrigita, borse sotto gli occhi, le rughe come solchi d’aratro su una terra che rinsecchisce, avara, prossima alla sterilità, e domandarsi come possa il tempo essere divenuto tanto veloce e noi così lenti. Eppure non riuscire a temerlo, provare tenerezza per quella te riflessa nello specchio che quasi non riconosci, esserle grata perché in fondo non ti ha mai abbandonata, nemmeno nei momenti peggiori. Oh, certo, non sempre è stata affidabile e attendibile, tuttavia è lei che ti ha sostenuta, ha curato le tue ferite come ha potuto, ti ha fatta ridere e arrabbiare con le sue ingenuità e i suoi inganni – è lei che ti ha presa per mano trascinandoti via dal tuo inferno ed ora è lei che ha bisogno di te per camminare dritta, non aver schifo dei suoi denti guasti, degli acciacchi, i vuoti di memoria – per sentirsi bella e importante, ancora, forse più di prima.

Ecco, guardo il mio orologio – ho levato i numeri, le lancette.

Il tempo? Se non impari a dargli un’importanza relativa a poco a poco diviene il tuo unico pensiero, la tua unica preoccupazione. Una lunga o breve notte senza riposo, pace. Ti ammorba e uccide – non meno del dolore.

 

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