
Quanti
ricordi...
Se penso alla mia vita stento a credere di aver visto e fatto tanto -
mi sembra d’imbrogliare, di raccontar bugie, eppure è vero:
ho vissuto, ho dato e ricevuto molto, più di quanto mi par ragionevole
adesso.
Le notti. Ho cominciato a viverle quando ancora avevo difficoltà
ad articolare le parole, a mettere insieme un pensiero capace di spiegarne
le inquietudini e il fascino. Rannicchiata nel mio lettino vegliavo, lottavo
con tutte le mie forze contro le palpebre che si abbassavano - avevo l’illusione
che se non mi fossi addormentata avrei potuto impedire le urla, i pianti,
sarei intervenuta e forse mio padre non avrebbe riempito di botte quella
donna che non meno di me, in un’altra stanza, aspettava spaventata
il suo ritorno senza sapere che ne sarebbe stato di lei, a quale croce
o delizia l’avrebbe destinata. Avevo certamente meno di cinque anni
- lei trenta. Era bella, erano belli entrambi - belli e dannati, disperati,
senza pietà, coscienza.
5250 notti passate con l’orecchio teso, spiando il silenzio, scrutando
nel buio la luce filtrare da sotto la porta, di là le ombre muoversi,
cercando d’intuirne i gesti, l’umore, pronta a saltar fuori
come l’armata Brancaleone, piccolo Don Chisciotte che nessun mulino
a vento avrebbe piegato, nessun fantasma smascherato. E l’indomani
la gogna: lentamente distribuire le letterine nell’abbecedario,
nel tempo a malapena riuscire a fare due più due - eppure sapevo
cos’era l’oscurità, se me l’avessero chiesto
avrei potuto parlarne a lungo, con dovizia di particolari, ma che importanza
hanno i pensieri di una bimba se non si ha orecchie che per se stessi...
Attese. Ricordo le vigilie di Natale, il grande albero colorato senza
pacchi da scartare, la brace nel caminetto che ancora un poco riscaldava
il salone. Me ne stavo in agguato dietro una poltrona, pronta a sorprendere
l’unico uomo buono e generoso che conoscessi, ma al mattino inspiegabilmente
mi risvegliavo nel mio letto, allora, piena di rabbia perché non
ero stata capace di rimanere sveglia, schizzavo via veloce, correvo a
vedere se avesse lasciato una traccia... Talvolta trovavo i miei regali
sparpagliati sul grande tappeto e tutt’intorno: il fortino con i
soldati appostati, la diligenza in arrivo inseguita dagli indiani - più
in là il villaggio Navajo, le tende, il Totem, i fuochi accesi,
le pelli d’orso messe a seccare... Rimanevo a bocca aperta più
che altro chiedendomi come avesse potuto far tutto quel trambusto in una
frazione di secondo, tanto era durata la mia notte. Probabilmente Babbo
Natale era un appassionato lettore di Tex Willer, come mio padre - altrimenti
perché ignorava gli altri regali che rimanevano incartati? Perché
quello era l’unico gioco che certamente avrei ottenuto? Ancora oggi
aspetto “Il piccolo chirurgo”, un microscopio... Credo che
i due fossero in combutta, tentassero di tenermi lontana da qualcosa.
E qualcosa di sconosciuto e inatteso arrivò attraverso i suoni
provenienti da una scatola... Scoprì che non solo di canzonette
era fatta la musica, non solo di sciocchezze e violenza le parole, ma
in casa mia era vietato cambiare canale, ascoltare quella robaccia incomprensibile.
Allora presi l’abitudine di passare la notte con un orecchio accostato
alla radio e l’altro invariabilmente attento ai rumori della casa.
Sul terzo trasmettevano musica lirica, classica, contemporanea, jazz,
parlavano di cose incredibili: teatro, cinema, letteratura, arte, politica,
attualità... Là fuori c’era un mondo difficile ma
straordinario ed io capì che lì volevo andare, essere -
appena ne ebbi l’occasione lo raggiunsi.
Così le notti smisero d’essere un incubo, viverle divenne
un imperativo assoluto perché l’esistenza è una, và
presa a morsi, spremuta, distillata... Il paese dei balocchi mi si aprì
davanti con i suoi palcoscenici polverosi, le lunghe chiacchierate sino
al mattino, i pellegrinaggi alcolici guidando senza patente, le donne
(tutte in una, ognuna in tutte). 24, 48 ore ed oltre senza mai fermarsi,
a fianco di attori, poeti, pittori, musicisti, persone di ogni età,
cultura, condizione sociale. Di giorno talvolta dormire, la notte seguire
le orde o lavorare - sfinirsi al cavalletto, scrivere, finalmente sola
ritrovare il bandolo della matassa e poi di nuovo perderlo, perdersi e
inseguirsi. Anni e anni vagabondare, strisciare lungo i muri e insieme
calcare le scene, da protagonista. Poi, a poco a poco, le lancette dell’orologio
hanno smesso di correre: 48, 24, 16, il tempo della veglia tutt’uno
con il sole, le stagioni - il telefono che quasi smette di trillare, i
corpi che cadono come foglie secche... Guardarli volteggiare, giù,
sino a terra e ancor più sotto, piangerli e insieme piangere il
silenzio, l’immobilità vuota che hanno lasciato intorno a
sé.
Addormentarsi sul divano guardando la TV, dopo cena. Svegliarsi all’alba
e trarne un piacere che non saprei descrivere. Chiudere gli occhi, riaprirli
e scoprire che in quell’attimo un anno è passato, poi due,
tre e chiedersi come sia possibile dimenticare quello che si è
fatto ieri quando si è capaci di ricordare con tanta nitidezza
le luci e gli odori di trent’anni fa. Chiudere gli occhi, riaprirli
e scoprire che in quell’attimo tutta una vita è trascorsa
e tra meno di un istante non ci sarà più tempo per porvi
rimedio, salutare gli amici, dire loro quanto bene gli abbiamo voluto
e quanto siano stati importanti per noi, anche quando non abbiamo saputo
ascoltarli, li abbiamo traditi o persi nostro malgrado. Scoprirsi infanti
con la testa improvvisamente ingrigita, borse sotto gli occhi, le rughe
come solchi d’aratro su una terra che rinsecchisce, avara, prossima
alla sterilità, e domandarsi come possa il tempo essere divenuto
tanto veloce e noi così lenti. Eppure non riuscire a temerlo, provare
tenerezza per quella te riflessa nello specchio che quasi non riconosci,
esserle grata perché in fondo non ti ha mai abbandonata, nemmeno
nei momenti peggiori. Oh, certo, non sempre è stata affidabile
e attendibile, tuttavia è lei che ti ha sostenuta, ha curato le
tue ferite come ha potuto, ti ha fatta ridere e arrabbiare con le sue
ingenuità e i suoi inganni – è lei che ti ha presa
per mano trascinandoti via dal tuo inferno ed ora è lei che ha
bisogno di te per camminare dritta, non aver schifo dei suoi denti guasti,
degli acciacchi, i vuoti di memoria – per sentirsi bella e importante,
ancora, forse più di prima.
Ecco,
guardo il mio orologio – ho levato i numeri, le lancette.
Il
tempo? Se non impari a dargli un’importanza relativa a poco a poco
diviene il tuo unico pensiero, la tua unica preoccupazione. Una lunga
o breve notte senza riposo, pace. Ti ammorba e uccide – non meno
del dolore.

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