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Aggiornato
Martedì 04-Set-2007
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Fortunata la sua fortuna andò a cercarla e dove non la trovò, la creò – con le proprie mani e le proprie sole forze. Nata a Valdottavo, figlia di umili castagnini (1) calati a valle dalla Garfagnana, poco più che adolescente rimase incinta, si sposò e trasferì in città nella speranza di poter avere un futuro migliore. Pochi mesi dopo suo marito sparì nel nulla e se ne persero le tracce, sino a quando, una sessantina di anni dopo, una lettera proveniente dal Brasile ne annunciò il decesso. Per anni ne aveva atteso il ritorno, poi aveva incontrato Luigi senza poter regolarizzare la loro convivenza perché in assenza di un certificato di morte per la chiesa continuava ad essere regolarmente coniugata, anche se con un fantasma. Per tutta la vita si era chiesta cosa gli fosse accaduto e improvvisamente, attraverso quello stupido pezzo di carta, scopriva che non solo era morto e non poteva più darle alcuna spiegazione, ma in terra straniera si era fatto un’altra famiglia, aveva lasciato una moglie e dei figli che aveva amato, protetto, per i quali aveva gioito, lavorato, vissuto – senza rimpianti, senza rimorsi. Mentre lei a causa sua aveva dovuto lottare con le unghie e con i denti per difendere se stessa e suo figlio dalla vergogna e dalla fame, lui dall’altra parte del mondo se l’era spassata. Bastardo. Tuna deve aver avuto la forza di pensare solo questo quel giorno... Intorno agli anni Venti, dunque, si ritrovò abbandonata e sola. Stringendo a sé il piccolo Eligio s’improvvisò fioraia. Vendeva mazzetti di fiori agli angoli delle strade, fuori dal teatro, al mercato. Raggranellava qualche centesimo per pagarsi una stanza nel retrobottega di un casino, riempire una ciotola di farro, cuocere un castagnaccio o della polenta, tirare avanti con un solo vestito da lavare e asciugare se c’era legna da ardere, o portarlo a oltranza, finché puzzava e non si poteva sopportare. Ma Fortunata era una donna forte, coriacea, avveduta, conosceva la miseria, aveva imparato a vivere con poco, a trarre guadagno dal niente, a non farsi scrupoli. Al bordello imparò a procurare aborti. Chi si rivolgeva a lei pagava bene, oppure non aveva difficoltà a ricambiare il favore concedendo prestiti, vendendole le sue merci a credito. Tuna acquistò un carretto e quantitativi di fiori sempre più grandi. Comprò anche filati con i quali realizzava coperte colorate che rivendeva bene, scampoli di stoffa con la quale confezionò altri vestiti, fasce nuove al figlio e poi grembiulini per la scuola. Prese in affitto un seminterrato nel quale andò a vivere. In un fondo piuttosto grande accanto alla sua nuova casa, ci fece il magazzino. Suo figlio non sarebbe stato un ignorante come lei che sapeva a malapena scrivere e far di conto, lo avrebbe fatto studiare, gli avrebbe dato quello che lei non aveva avuto: un’occasione… Ma che fatica farlo accettare da chi era abituato ad educare i figli della borghesia, lui così mingherlino e cagionevole, con le sue scarpe rotte e consumate, il collo e le unghie sudice… Quant’era difficile sopravvivere senza prendere la tessera del partito - se non fosse stato per le mogli e le amanti di quegli ipocriti gerarchi, per la farina e lo zucchero che le procuravano… L’uomo in divisa che doveva arrestarla non ne ebbe il coraggio: Tuna lo guardò con i suoi occhi color dell’acqua e lui si aggrappò alla sua gonna, per non annegare… La prima volta la prese con la forza, ma poi fu dolce e lei gliene fu grata. A casa lo aspettavano una moglie e dei figli, fuori dalla porta una rispettabilità da rivendicare e tutelare. Tuna nascose le lacrime, sotto il grembiule la pancia che cresceva, prese fiato e lo lasciò andare senza chiedere niente… Conobbe Luigi, un veterano della prima guerra mondiale alto due metri, elegante e indolente, bello, occhi chiari, naso importante, mani e piedi troppo grandi, poche parole e due passioni che era utile sopportare: le donne e le carte. Luigi diede una paternità al piccolo Olinto e per il resto della sua vita si finse al servizio di questa donna caparbia e generosa. Mentre le leggi razziali cominciavano a fare le prime vittime fornendo carne da macello da inviare ai campi di lavoro e morte, intorno a Lucca, in provincia e sui monti della Garfagnana, la resistenza imparava ad organizzarsi. Tuna era indignata e arrabbiata, il fascismo non aveva esercitato su di lei alcun fascino. La mandava in bestia tutto quel mostrare muscoli, manganelli e camice nere, gli abusi di potere, il clientelismo, le vessazioni, quel comprare e vendere complicità. Cominciò a confezionare munizioni, ordigni rudimentali per le azioni di sabotaggio – uno di questi le scoppiò fra le mani portandole via cinque dita. Rimarginate le ferite riprese a dosare la polvere da sparo, ad infilare detonatori, a sferruzzare, confezionare mazzi di rose, gladioli, garofani, come se niente fosse. Bisognava pur vivere. Arrivarono i tedeschi che aiutati dai collaborazionisti cominciarono a seminare il terrore. Durante un rastrellamento catturarono Eligio. Qualcuno corse ad avvertirla e lei non si trennò (2). Nascosta in una loggia attese che le passasse accanto la lunga colonna di uomini. Appena suo figlio le fu a tiro, lo afferrò per il bavero e con tutta la forza che aveva lo trasse a sé - fulminea. Nessuno se ne accorse ed Eligio fu salvo. Finita la guerra, il carretto si trasformò in un banco, la vendita ambulante in un posto fisso “vita natural durante” (3). Accanto ai fiori mise in mostra le piante. Acquistò anche una licenza per poter vendere frati e bomboloni durante le feste comandate. I banchi divennero due e le cose andarono un po’ meglio, perlomeno economicamente. Poco dopo Eligio si ammalò di asma bronchiale e dovette rinunciare a studiare il clarinetto, così, visto che ormai non aveva più nulla da perdere, cadde in depressione - divenne un fumatore incallito forse per abbreviarsi la vita, ma non vi riuscì. Olinto, il secondogenito che a quel tempo era ancora un ragazzo pieno di speranze e fiducia, dopo aver conseguito la licenza elementare, si appassionò alla meccanica e andò ad imparare il mestiere presso l’officina di un amico di famiglia. Luigi continuò ad avere solo due preoccupazioni: mangiare bene e in abbondanza, e andarsene in giro dalla mattina alla sera bighellonando. Tuttavia, qualunque cosa facessero o avessero voglia di fare, tutti dovevano contribuire affinché le attività di Tuna non risentissero dei loro capricci – d’altronde, se non l’avessero in qualche modo assecondata avrebbe smesso di dargli il denaro del quale avevano bisogno, quindi… Da allora ognuno ubbidì ai suoi diktat non senza farsi pregare. Eligio passò le sue giornate intorno al banco dei fiori, a disposizione, più o meno pronto ad eseguire gli ordini della madre, sempre controvoglia, bofonchiando. Luigi si occupò di aprire e chiudere l’attività caricando sul triciclo masserizie e compagna (che era diventata talmente grassa da non potersi più muovere autonomamente): verso le sette la portava a destinazione, aiutava a disporre sugli scaffali la merce, quindi spariva sino alla sera quando tornava a prenderla per riportarla a casa. Poi, durante i periodi nei quali si potevano vendere i frati (a settembre per la festa di Santa Croce o a dicembre per il Natale, ad esempio), tutti al pezzo! Olinto aveva l’obbligo di preparare l’impasto, modellare le ciambelle e metterle a lievitare, Luigi dosava gli ingredienti e dava una mano alla friggitrice, Eligio saltellava da un banco all’altro tutto il santo giorno per aiutare nella vendita, tenere informata sua madre e consegnarle gli incassi prima che qualcuno li facesse sparire. Nel 1963 Olinto si sposò e Tuna impose prima a sua moglie e poi alle sue figlie, di dare, non meno degli altri, il proprio contributo. Insomma, Fortunata instaurò una vera e propria dittatura matriarcale attraverso la quale poté, quasi sino all’ultimo, mantenere sotto il suo diretto controllo ben otto persone! Questa donna grassa e inferma (nonostante l’altezza assai ridotta superò abbondantemente i cento chili), esercitò il suo potere attraverso il ricatto economico e, in alcuni casi, affettivo, ma per quanto si lamentassero, a tutti non parve vero che ci fosse qualcuno disposto a soddisfarne i bisogni, che così poco sforzo gli costasse vivere da bimbetti, senza pensieri, responsabilità. Tuna li vestì, sfamò, pagò i loro debiti, finanziò le loro attività, comprò automobili, mantenne amanti, non ci fu vizio al quale dovettero rinunciare. Fece finta di non capire e non vedere, costruì e tenne unita la famiglia per non dovervi rinunciare, perché, anche se inadeguato, quel mucchio di squinternati erano tutto quello che poteva permettersi. Quando nel 1978 i miei genitori finalmente si separarono ponendo ognuno di fronte alle proprie colpe, Tuna capì di non poter fare più nulla per rimetterli insieme e a poco a poco si spense. Stessa sorte toccò agli altri. Nel 1980 morì Eligio, nel 1981 mio padre, infine lei, un anno dopo. Luigi, come al solito indifferente a qualsiasi cosa che non gli convenisse, si ritirò in una casa di riposo dove sopravvisse mangiando “bene e in abbondanza” per altri otto anni. Quando morì scoprimmo che il vecchio terreno agricolo che ci aveva promesso in eredità era stato venduto già da un pezzo, più di una volta. L’ultimo al quale lo cedette in cambio di un funerale decente, fu un improvvisato esecutore testamentare al quale lasciò anche il resto - vale a dire niente. E bravo il nonno. Ancora oggi se ci penso non posso fare a meno di ridere.
Note 1)
Raccoglitori di castagne.
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