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Aggiornato Sabato 24-Mar-2012

 

«Mi sono persa nella nebbia, poi finalmente ho scelto di ascoltare il mio cuore, le ragioni della mia rabbia e del mio dolore. Ho scelto di stringerli a me, cullarli e proteggerli – per capirli e separarmene. Oggi, se guardo indietro, non mi riconosco. Non riconosco la donna che vedo camminare a ritroso, nel tempo, da ieri al giorno della sua e mia nascita. So che siamo state bambine, poi ragazze e infine donne. So che abbiamo avuto sogni e speranze, ferite profonde da nascondere – so che a un certo punto la paura e l’umiliazione hanno scardinato le nostre vite rendendoci feroci, mostruose. Ho preso i miei ultimi due figli e li ho annegati nel water, gli altri avrei voluto semplicemente cancellarli, come si fa con il gesso sulla lavagna – e ho provato in ogni modo a farlo. Dicono che sono stata capace di cose peggiori - sono sicura che è vero, ma non lo ricordo. Per favore, lasciatemi qua. Non mandatemi via. Io non ho più una casa, una vita, una famiglia. Io, forse, non ho mai avuto niente di tutto questo. Che ne sarà di me? Dove andrò, cosa farò?»

Per lo Stato, i giudici e i medici, Benedetta aveva pagato il suo debito. Occorreva far posto, risparmiare denaro. Fuori tutti, o quasi. Lei non era tra questi ultimi.

Mise le sue poche, povere cose in un sacco di plastica nero, sentì i cancelli richiudersi dietro di sé, le consegnarono qualche spicciolo, i suoi effetti personali rimasti in custodia per più di quarant’anni e attraversò il cortile che separava il penitenziario dal mondo civile. Di fronte al grande portone che l’aspettava aperto, ebbe un mancamento. Due guardie carcerarie la sostennero e con decisione l’accompagnarono all’uscita. «Va meglio, ora?» - le chiese il più giovane. Lei non riuscì a dire una sola parola, annuì appena, chinando il capo e chiudendo gli occhi. «Coraggio, vai...» - le disse l’altro spingendola fuori, poi si affrettò a chiudere il portone.

Benedetta, rimase immobile qualche minuto, ascoltando intorno a sé i rumori farsi insopportabili. Non riusciva a ricordare quand’era l’ultima volta che aveva sentito da così vicino il rombo delle auto. Quando aveva percepito la vicinanza degli altri in quel modo così particolare – l’ultima volta che si era sentita invisibile. Aprì gli occhi e scoprì di essere in mezzo al marciapiede. Le persone la schivavano distrattamente, o guardandola di sottecchi, qualcuno con disprezzo, qualcun altro con ironia o indifferenza. Un bambino cominciò a strattonare sua madre costringendola a dargli uno scappellotto perché la smettesse di indicarla. Un cane le si avvicinò e le annusò lungamente le scarpe, infine se andò senza degnarla nemmeno di uno sguardo.

Benedetta non sapeva dove andare. Il prete le aveva scritto su un biglietto l’indirizzo della Caritas: «Se non sai dove dormire e mangiare.» - aveva sussurrato. Sospirò, si fece coraggio e decise di attraversare la strada, di dirigersi verso i giardinetti pubblici. Bevve un po’ d’acqua a una fontana, inumidì il fazzoletto di cotone e si terse il viso, poi si sedette su una panchina per riprendere fiato, ordinare i pensieri. Cercò di capire in quale punto della città si trovasse. Quando scoprì di essere vicino al cimitero, s’incamminò. Varcato l’ingresso furono i suoi piedi a portarla nel settore vecchio, tra lapidi coperte di muschio, fiori rinsecchiti e vasi, lumi rotti. Si stupì di quanta facilità ebbe a orientarsi, a ritrovare le tombe di quelli che erano stati i suoi aguzzini. Intorno a lei volti sbiaditi, antichi, o solo nomi e date incise, poi, dagli anni Cinquanta, più nulla - come se a un tratto anche la morte avesse sdegnato quella stirpe maledetta.

A tre anni era stata affidata a una coppia di contadini che ne aveva fatto una serva. A sette accudiva i loro figli, a dieci soddisfaceva le voglie del patriarca, a sedici era incinta di un maestro elementare che comprava ragazzine come fossero vestiti. Un medico se ne impietosì, la strappò al pollaio e la sposò. L’anno dopo era nuovamente gravida, e quello successivo ancora. A vent’anni aveva già tre figli, poi la tragedia: il medico, malato di cancro, si tolse la vita lasciandola in un mare di guai e debiti - da quel momento smise di pensare, si perse nella nebbia, a occhi chiusi.

Benedetta avrebbe voluto sedersi, riposare un po’, ma i suoi piedi la portarono in un’altra area del cimitero – bianca, pulita e profumata: il regno dei cieli in terra, pieno di santi, angeli, fraticelli, cristi con o senza croci, madri piangenti figli morti sulle ginocchia, sepolcri monumentali, corsie preferenziali per l’aldilà. In lontananza vide la cappella Polidori. Accecante. Fredda. Imponente. Senza sapere come, si ritrovò davanti al loculo del marito. Guardò a lungo la foto - i suoi baffetti, lo sguardo mite ma sicuro. Per quanto si sforzasse non riusciva a ricordarlo, non in vita, almeno.
«Lo conosceva?» - le chiese una voce alle sue spalle.
Benedetta annuì timidamente, senza voltarsi: «Di vista.»
«Vorrei chiudere la cappella, ma stia ancora – se vuole.» La donna terminò di sistemare i fiori, poi si avvicinò a Benedetta: «Sono sua nipote...»
Benedetta trasalì. Il cuore si fermò. «Piacere...» - disse con un filo di voce cercando di non incrociarne lo sguardo.
«Ci conosciamo?»
«No.»
«Strano, ha un’aria così familiare...»
Benedetta strinse tra le braccia il sacchetto di plastica nero: «Devo andare, mi scusi...» - ma non fece in tempo a raggiungere l’uscita.

«Nonna?»

Benedetta si fermò, come al solito chiuse gli occhi. Rimase per un tempo interminabile ad ascoltare il silenzio, senza sapere cosa fare, incapace di andarsene, incapace di voltarsi. Una tempesta di pensieri ed emozioni la attraversò lasciandola in preda a una assordante confusione. Quando li riaprì vide se stessa, a vent’anni – solo più alta, e felice. Si sentì chiederle: «Come ti chiami?»

«Benedetta.»

 

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