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Aggiornato Sabato 24-Mar-2012

 

Tina lottò con tutte le sue forze per potersi mettere i pantaloni alla zuava, ormai sotto misura, lisi e malconci ma per lei ancora bellissimi e comodissimi. Sua madre si oppose, le assestò un violento ceffone, la minacciò e insultò lungamente, infine dovette arrendersi. Tina, ancora singhiozzante e con gli occhi gonfi di lacrime, lasciò che le spezzasse i capelli raccogliendoli nella solita coda di cavallo, quindi accettò di mettersi gli odiati stivali rossi di gomma e la ridicola mantellina impermeabile in coordinato, prese la cartella e si avviò con passo spedito verso la scuola chiudendo l’ombrello appena svoltato l’angolo.

Adorava la pioggia, specie i begli acquazzoni che precedevano l’autunno e duravano per giorni senza smettere mai. Le davano un senso di libertà ed eccitazione che non riusciva a controllare. Seduta davanti ai quaderni, ai libri, ai fogli da protocollo che spesso rimanevano intonsi, guardava il cielo immaginando avventure straordinarie, sognando di fuggire via, per mare, lontano dal suo destino, da quella umanità feroce e insulsa che pareva esistere soltanto per opprimerla, dimostrarle quanto fosse inadeguata. La famiglia, la scuola, la parrocchia, il vicinato – non vi era luogo in cui si sentisse a proprio agio, non vi era persona interessata a infonderle sicurezza, che avesse per lei riguardo, che le desse prova di amore, considerazione e rispetto. Da che ricordava, era sempre stato così.

Suonò la campanella della ricreazione e in un baleno raggiunse i portici. Guardava le gocce di pioggia disegnare cerchi concentrici nelle pozze d’acqua che avevano riempito gli avvallamenti del cortile. Esitò, infine non poté resistere e si lanciò là in mezzo. Camminava lentamente, sotto il temporale, senza ombrello, mantella – lei sola. Ogni volta che l’acqua le lambiva le ginocchia, una gioia incontenibile l’attraversava. Indagava il terreno cercando le pozze più profonde, immaginandosi impavida esploratrice. Nel folto della foresta, tra le insidie della palude, lo sguardo sprezzante dei coetanei non aveva più alcuna importanza, i rimproveri degli adulti si perdevano nel vento diventando l’eco sbiadito della sua infelice gioventù.

Sospirò, sorrise e chiuse la finestra. «È freddo. Sembra settembre, anzi, ottobre.»
«Già, pensare che sino a quattro giorni fa c’erano trenta gradi.»
«Quand’ero ragazza, con le stagioni ci potevi rimettere l’orologio, non occorreva il calendario. Ogni giorno, mese, aveva le sue luci, i suoi colori, odori – impossibile sbagliarsi. Mi sembra di sentire l’aroma di dolciumi, frati e bomboloni, come quando arrivavano le giostre, c’era la fiera e iniziava la scuola. Il profumo delle matite appena comprate, degli astucci nuovi, dei quaderni e dei libri freschi di stampa...»
«La naftalina! Il giorno che non si poteva più stare accanto a mia nonna tanto puzzava, voleva dire che l’estate era finita. Fortuna che in casa mia non si usava, non sarei sopravvissuta alla vergogna di andare a scuola con quell’odore addosso, ma alcuni compagni l’avevano, puzzavano per settimane intere, erano insopportabili.»
Tina ebbe un guizzo di rabbia. Avrebbe voluto sgridarla, spiegarle quanta sofferenza può provocare il disprezzo degli altri per le consuetudini che non si condividono, e quanto, queste, nel tempo diventano per chi le ha vissute, rimpianto, talvolta angoscia o poesia. «L’odore di naftalina m’intenerisce,» - le disse - «mi ricorda l’adolescenza, ciò che è stato e non è più. A quel tempo non sapevo che era il segno dell’appartenenza a un’epoca che sarebbe stato meglio rinnegare. Nei primi anni Settanta si era già ampiamente affermata la cultura dell’apparenza, dell’omologazione, dell’ostentazione o del nascondimento. Le mie compagne, ricche o povere che fossero, venivano a scuola firmate dalla testa ai piedi, profumate e imbellettate, perlopiù accompagnate in auto dalla mamma o dal papà. Acquistavano la merenda al bar, parlavano soltanto di shopping, moda, ragazzi e vacanze. Io, nella mia tuta da due soldi, con il mio pezzo di focaccia unta e secca, mi sentivo senza identità, futuro, diritti. Non volevo quello che avevano loro, non volevo essere come loro, tutt’altro. Mi sarei accontentata di tagliare i capelli, di un paio di Jeans, scarpette da ginnastica, una bicicletta, ma per mia madre era necessario che le somigliassi e purché non sembrassi altro tentava almeno di adeguarmi al suo modello di femminilità - non valeva la pena spendere un solo centesimo per aiutarmi a essere me stessa. Ho indossato il mio primo paio di Jeans a vent’anni. Un’amica non li metteva più perché erano dell’anno prima. Li teneva in un vecchio armadio, profumavano di naftalina.»
Antonella avrebbe potuto fermarsi a pensare, avrebbe dovuto approfittare di questo piccolo racconto per guardare le medesime cose da un differente punto di vista, invece le chiese che programmi avesse per il pranzo.
«Niente pausa, devo finire una relazione.» E si mise al computer.

La giornata trascorse pigramente. Tina non riusciva a concentrarsi, le mancavano le parole, la mente se ne andava a spasso tra i ricordi. Alle cinque spense il PC, timbrò il cartellino e uscì dall’ufficio. Decise di tornare a casa a piedi - quattro chilometri non erano poi molti. Camminava calma, sotto la pioggia battente. Come al solito dimenticò di aprire l’ombrello. Solo quando giunse a casa si rese conto di essere completamente fradicia. Starnutì - una, due, tre volte -, infilò i vestiti nel cesto e fece una doccia. Erano già le sette, eppure il tempo sembrava scorrere a una velocità insolita – pensò che forse, se avesse chiuso gli occhi, si sarebbe fermato. Mise sul piatto del giradischi un vecchio LP di Keith Jarrett, The Köln Concert. Aprì la finestra e lasciò che l’aria fredda e umida riempisse il modesto bilocale. Senza accendere la luce preparò una tisana, si sedette sul divano e la bevve a piccoli sorsi guardando la sera avvolgere lo scorcio di cielo grigio, oltre la finestra. Non ricordava l’ultima volta che si era sentita così quieta, consapevole. «Possibile che tutto sia accaduto soltanto perché potessi giungere qui? Morire, ora – sarebbe perfetto.» - sussurrò.

Tre settimane dopo i vigili del fuoco forzarono la porta della sua casa. Gli agenti di polizia e la vicina che aveva dato l’allarme, entrarono aspettandosi il peggio, ma di Tina nessuna traccia. Ogni cosa era al suo posto. Non mancava nulla, nemmeno la borsa, il portafoglio con i documenti e pochi spiccioli, le chiavi. Sul tavolo una tazza, tra i cuscini del divano l’impronta del suo corpo.

La cercarono dappertutto: nel fiume, tra i boschi, presso parenti, amici, conoscenti, vicini o lontani. Le ricerche proseguirono per molti mesi durante i quali l’anziana madre continuò a pagarle l’affitto, quando le indagini arrivarono a un punto morto, decise di liberare l’appartamento. I facchini l’aiutarono a inscatolare gli effetti personali della figlia, tra questi molti libri, carte, lettere, diari, fotografie.

«Signora, cosa ne facciamo?» - le chiesero.

«Buttate tutto.» - disse senza nemmeno dargli un’occhiata. Tenne per sé il mobilio che le piaceva e il resto lo regalò a una famiglia indigente.

 

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