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Aggiornato Venerdì 21-Dic-2012

 

Ho aspettato. Ho aspettato e ancora ho aspettato. Niente.

9 Luglio 2006. Gli italiani, quelli che si scoprono orgogliosi di esserlo solo quando si tratta di far bella figura calcisticamente, meglio se stando sul carro del vincitore, festeggiano la 4° coppa del mondo.

10 Luglio 2006. L’Italia dei bagordi, dei bagni nelle fontane, dei caroselli notturni, del «che schifo il calcio ma se vince la nazionale festeggio anch’io», l’Italia che ha la memoria corta, che finge di non sapere che i suoi beniamini sono mercenari al servizio di loro stessi e del migliore offerente, non necessariamente in quest’ordine, aspetta i campioni, li accompagna dall’aeroporto sin dentro i palazzi. Se non a Roma, davanti alla TV. Prodi, Melandri, Napolitano – parole che suonano grosse, ma è festa, chiudere un occhio si può, si deve… Poi, sul pulman scoperto stile London City, i nostri saltano, cantano, salutano, urlano, si godono il bagno di folla, il tripudio come, forse, nemmeno i gladiatori vissero. E sventolano bandiere, si avvolgono nel tricolore. I più distratti o i più ignoranti, lungo le strade, dietro le telecamere, davanti ai teleschermi, non si accorgono. Gli altri di occhi ne chiudono due per non vedere quel simbolo, quella croce celtica chiaramente disegnata su uno striscione mostrato con orgoglio da uno dei più celebrati giocatori della nazionale: Buffon. Simpatico ragazzo, e bravo – fra i pali. Fuori dall’area di rigore, però… ma è festa, dannazione, vogliamo buttarla in polemica anche oggi? Cosa c’entra lo sport con la politica? Appunto. Saltano i nostri ragazzi. Arrivano al Circo Massimo e dal palco che pare una torre inespugnabile visibile a chilometri di distanza, parlano la lingua degli italiani, sono come loro! Buffon dispiega il suo striscione, lo stende come farebbe una brava massaia sul parapetto e ci si appoggia sopra a bocca spalancata. Che tutti vedano, tutti ascoltino – il portiere e la sua bandiera: “Fieri di essere italiani”, il tricolore e la croce celtica. Nessuno sussulta, là sotto o altrove, nessuno dietro le macchine per scrivere ha un moto d’indignazione o perplessità.

Nella notte, a Roma, mentre i festeggiamenti proseguono smodati, il ghetto è preso d’assalto. Croci uncinate a fianco di croci celtiche compaiono ovunque.

Il giorno dopo, la notizia sconvolge l’Italia che si crede onesta e giusta. Unanime la condanna. Qualcuno si dichiara preoccupato, o stupito. Ma nessuno ricorda di aver visto sullo striscione di Buffon l’emblema utilizzato da Forza Nuova, la croce celtica. Eppure quel simbolo è identico agli altri scarabocchiati sui muri, sui portoni, sulle vetrine del quartiere ebraico! Perché lui può esibirlo e a nessuno viene in mente di prenderlo a calci nel didietro insieme ai suoi amichetti sessisti, misogini, omofobi e xenofobi?

Già, l’Italia delle caste, dei politici liberisti, progressisti e riformisti, dei giornalisti e degli intellettuali con o senza blasone, dei finanzieri e degli imprenditori, dei cardinali e dei vescovi, degli opinionisti accreditati, degli sportivi, dei tifosi, dei cittadini che si credono onesti e giusti, che magari lo sono ma a fasi alterne, secondo convenienza, non vede, non sa, non ricorda, non parla, non scrive, non pensa. Ha smesso di farlo – da un pezzo.

Mentre i coglioni, i froci, le femministe e i comunisti se ne stanno sul carro del vincitore a festeggiare convinti di fare l’interesse proprio e del paese, prosperano i Buffon - e i Roberto Fiore. Gli eredi del nazifascismo promuovono impuniti il privilegio, il disprezzo, l’inciviltà e la barbarie. In questa folle, suicida, pusillanime indifferenza, ognun che tace spiana la strada al regime che già c’è, e avanza – inesorabile come una degenerazione che non si vuol vedere, ammettere, stroncare.

Guardo quest’Italia campione d’ignoranza ed ipocrisia e con rassegnato disincanto brindo alla storia, alla memoria, ai buoni principi su cui i padri costituenti fondarono la Repubblica: ragioni e parole che ormai valgono meno di un soldo bucato.

C. Ricci

 

(21 Luglio 2006)

 

Mi giunge voce che il giorno dopo “Il Tirreno” abbia pubblicato un articolo nel quale segnalava lo striscione ma non riteneva che Buffon ne fosse l’autore. Avendolo egli già trovato esposto sul parapetto, quindi senza che ne potesse vedere il contenuto, vi si sarebbe appoggiato del tutto in buona fede. Secondo altre testimonianze, invece, lo avrebbe portato lui dopo averlo sventolato ed esibito durante il tragitto sino al Circo Massimo. Poco importa, in effetti. Sappiamo di che colore sono le simpatie politiche della maggior parte dei nostri campioni, quel simbolo non li avrebbe di certo infastiditi. Quel che maggiormente preoccupa è che nessuno lo abbia fatto togliere e che quasi nessuno lo abbia adeguatamente, giustamente stigmatizzato. Sui muri del ghetto - no, esposto sul palco di fronte alle telecamere - sì. Due pesi e due misure - vizio e vezzo di un’Italia con troppe facce. Di bronzo.

 

 

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