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Aggiornato Venerdì 21-Dic-2012

 

Pare che la TV sia l’unico mezzo d’informazione a cui attingono l’85% dei cittadini italiani. Niente fonti alternative (radio, internet, libri) - solo il blaterare sciatto e raffazzonato prodotto a pieni polmoni dai canali Mediaset e Rai. La TV generalista e commerciale è senza dubbio responsabile dell’impoverimento (appiattimento) culturale del nostro paese, tuttavia, essendo essa fatta da uomini e donne che nascono e si formano qui, è anche lo specchio di quello che la maggioranza degli italiani sono o vorrebbero diventare. E’ la dura legge del mercato: domanda/offerta. Ma nell’era mediatico-consumistica che ha in Berlusconi il suo deus ex machina, l’ordine talvolta s’inverte, i piani si confondono, allora non si capisce più cosa è realmente richiesto, gradito, e cosa non lo è. Bisogna ammettere che se le differenze si assottigliano sino a non essere più distinguibili, significa che non ci sono o non sono particolarmente rilevanti. L’esistenza di ben 6 reti a carattere nazionale proprietà di due sole aziende (una privata e l'altra pubblica), ha quindi l’unico scopo di collocare nelle varie fasce orarie e sugli apparentemente diversi target, l’offerta pubblicitaria. Stiamo parlando di una TV che risponde solo a logiche di mercato, i cui palinsesti sono costruiti intorno alle proprie esigenze commerciali - una TV lottizzata dai partiti secondo criteri proporzionali, che adegua qualità e quantità dei programmi alle loro pretese. In effetti, riferirsi ad un’unica TV è quanto mai adeguato. In Italia, non ci sono differenze sostanziali tra le varie reti. I programmi d’intrattenimento (format perlopiù acquistati all’estero o copiati) si somigliano, le pubblicità sono le stesse, i telegiornali omettono totalmente o riportano poco e male le medesime notizie, non verificano, spiegano e approfondiscono nulla in modo oggettivamente corretto, completo e imparziale (quindi non d’informazione si tratta), danno soprattutto visibilità e risalto (secondo i criteri proporzionali di cui sopra) ai politici di turno proponendo frammenti di esternazioni che, estrapolati dal contesto, diventano, nella migliore delle ipotesi, gag demenziali, nella peggiore, vere e proprie istigazioni. Ogni rete, di fatto, serve i suoi padroni e l’85% degli spettatori butta giù senza chiedere o cercare altro.

E’ in questo desolante scenario che matura il degrado culturale, morale e persino linguistico del nostro paese, qui alligna il populismo e il nazionalismo che ci sta portando alla rovina. Da una rete televisiva all’altra rimbalzano menzogne e castronerie, attraverso lo schermo arriva, imbellettato, ammantato di legittimità, nobiltà ed erudizione, il pensare e il dire che, se da una parte seduce l’85% degli spettatori, dall’altra schiaffeggia il restante 15% di cittadini ridotti al silenzio, non rappresentati.

La TV sdogana aberrazioni. Infetta se stessa e i suoi fruitori.

Ecco allora un paio di chicche, due epidemie linguistiche degli ultimi tempi: l’uso smodato e altamente irritante della parola “scossa” e l’ormai divenuto un intercalare, “detto questo”.

Quel che non hanno potuto Amadeus in anni di quiz televisivi e i molti terremoti (quelli sismici), l’ha involontariamente fatto D’Alema il 14 Giugno scorso nel programma “In 1/2 h” condotto da Lucia Annunziata su Rai Tre. “L'opposizione sia pronta in caso di scosse”, affermò, poi, giacché a parlar per metafore s’incorre in domande, dovette spiegarsi: scossa “significa momenti di conflitto, difficoltà imprevedibili”. Al di là di cosa volesse o non volesse fantasiosamente suggerire, da quel momento il lessico televisivo, giornalistico in particolare, si è appropriato di questo termine ed ora, ahinoi, ce lo ritroviamo dappertutto - spesso a sproposito. Commozione, impressione, shock, turbamento, danno, perdita, rovescio, risveglio, trauma, agitazione, trasalimento, sobbalzo, dissesto, scuotimento, botta, sballottamento, sbalzo, sbatacchiamento, sussulto, scrollata, colpo, batosta, scarica, stangata - d’un tratto, sinonimi ben più pertinenti alle varie circostanze non servono più, con gran risparmio per chi di parole campa, a scrocco.

Detto questo...

“Detto questo” cosa? Occorre? Dopo un punto, una frase, un periodo fatto e finito? Una premessa che si sott’intende o è esplicitamente tale? No, ma ormai non c’è discorso in cui non s’insinui. Hanno cominciato i politici (maledetti somari!) e dallo schermo questa combinazione di parole si è radicata nel linguaggio scritto e parlato degli italiani. Provate con Google: 19.700.000 pagine in cui non dovrebbe esservi! In una sola trasmissione radiofonica, Tabloid, in onda su Radio Tre dal lunedì al venerdì, Edoardo Camurri l’ha ripetuta per ben tre volte nei cinquanta secondi riservati ai saluti finali - probabilmente un record, non fa testo, ma che strazio!

Propongo l’inserimento sotto pelle di un microchip che in questi ed altri casi produca una leggera, dissuasiva, educativa scossa - elettrica, però, niente affatto figurata. Da qualche parte bisognerà pure cominciare.

 

 

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